Covid-19: corpo materiale, corpo immateriale
Premesso che nel seguente articolo non si intende mettere in discussione la giustezza o meno delle misure restrittive adottate per limitare il contagio da Covid-19. La pandemia sta mutando radicalmente la nostra corporeità. Se da un lato la prossemica imposta per ragioni sanitarie – la distanza fisica tra persone; la quarantena; l'uso di guanti e mascherine – sembra aver concretizzato quella distanza determinata dalla comunicazione tramite dispositivi elettronici (computers, cellulari, tablet, etc.) la quale in una specie di “sindrome di Stoccolma” virtuale sequestra il nostro corpo dalla realtà, dall’altro la pandemia ci sta prepotentemente restituendo alla nostra fisicità. Ci sta ricordando che siamo materia. Le nostre mani, sovente appendici per smanettare sulla tastiera, alcune da pianisti di talento, altre titubanti, alcune capaci di digitare testi sublimi, altre aggressivamente prone all’insulto, all'improvviso hanno reclamato la loro corporeità. Ci dicono che possono trasmettere virus reali e non solo propagare quelli via web. Ma in atto è un altro cambiamento. Quasi nessuno ne parla. Si tratta di un dramma che dovrebbe sollevare dibattiti, dovrebbe invocare una questione etica: la morte in solitudine a causa del coronavirus.
L'ultimo tragitto mondano non può essere solcato da nessuno. Nessuna lacrima potrà bagnare il legno della bara. Nessuna mano tendersi a toccare il volto freddo della persona amata. Non c'è la vestizione del defunto e per chi avesse espresso il desiderio in vita, nemmeno la cosmesi funeraria. Tale pratica consiste nel pettinare, truccare, lavare e profumare il defunto, costume da anni diffuso in America e giunto anche in Italia. Chi in vita era abituato alla cura del corpo, chi si presentava agli altri con capelli e maquillage impeccabili si vede negato il diritto di mostrarsi impeccabile anche da morto. La dignità consiste pure di apparenza. Si pensi a quali unguenti e orpelli di abbellimento venissero impiegati sui defunti nell'antico Egitto e in altre culture antiche. Tutto ciò è parte di quella ritualità presente in ciascuna area geografica, ognuna con le proprie caratteristiche, volta a suggellare l'ultimo saluto a chi ci lascia per sempre. Si pensi poi al rilievo che il tema della degna sepoltura riveste nella letteratura. Una fra le numerose opere dove la sacralità del defunto si staglia titanicamente, è il Carme Dei Sepolcri di Ugo Foscolo. La polemica sull’Editto napoleonico di Saint Cloud col quale si volevano seppellire i cadaveri fuori delle mura cittadine per motivi igienici scatenò l'indignazione del poeta. Il pensiero che le ossa del Parini potessero trovarsi insieme a quelle di un criminale in una fossa comune lo tormentava. E nel famoso sonetto A Zacinto, nell'ultimo verso, l’“illacrimata sepoltura” ovvero la sepoltura non bagnata dalle lacrime dei superstiti, riecheggia nella sua potenza emotiva sollecitando la memoria di altri cadaveri. Quelli smembrati che affollano l’epica e la poesia classica. Il corpo di Ettore trascinato intorno alle mura di Troia da Achille e la figura paterna di Priamo che chiede all’eroe di restituirgli il corpo del figlio. Il corpo smembrato di Orfeo vittima dell'invidia delle madri Ciconi. E, passando per Dante Alighieri, le ossa di Manfredi: “Or le bagna la pioggia e move il vento” (v. 130 del Canto III del Purgatorio). Scomunicato dalla Chiesa, il figlio di Federico II di Svevia fu fatto disseppellire dall’enorme cumulo di sassi detti “mora” vicino il Ponte di Benevento. I suoi resti, a ceri capovolti e spenti (così la consuetudine per gli scomunicati) furono abbandonati lungo il fiume Verde. Sorprendentemente compiendo un ulteriore salto ancora più indietro nel tempo, al mondo primitivo, quando la letteratura ancora non era nata, né le religioni troviamo l'uomo di Neanderthal porre un fiore nella tomba dei propri cari. Risulta evidente che il senso della perdita e il rispetto del defunto vadano al di là della linea temporale diacronica e delle sovrastrutture culturali. E risulta evidente che chi profana il corpo di un cadavere o una tomba, affronto ricorrente nelle guerre o perpetrato ad esempio dalle mafie per logorare e umiliare l’avversario, debba essere completamente privo di emozioni.
Il Coronavirus 2019 (è bene precisare che vi è una famiglia di coronavirus per cui l'attuale è stato datato all'anno appena trascorso poiché il primo caso del contagio si è registrato nel dicembre 2019, poi il nome provvisorio è stato sostituito da SARS-CoV-2, ma ancora è in uso il primo nome, specie a livello mediatico) sembra dunque aver ricondotto il nostro corpo alla sua concretezza. Lo colpisce e a volte lo uccide. Lo isola nella vita e nella morte. Se c’è qualcosa di ancora umano in noi non possiamo ignorare che esso ci priva di dare il saluto estremo alla persona cara. Non ci si può autoassolvere con il pretesto che le ragioni sanitarie lo impongono eludendo la riflessione, spingendo ad un’accettazione passiva della norma che offende la vittima e chi gli sopravvive. Non si può non sollevare una questione etica e morale.