Fenomenologia di una deterritorializzazione

In un passaggio non troppo noto di Deleuze si citano alcune figure dell’erranza e fin da subito, attraverso una sequenza molto rapida, il filosofo ci parla di un tipo di erranza che si dispiega secondo dei criteri particolari, in un modo compatto e crepato, concentrandosi sulla perdita totale di alcuni punti di riferimento: «Le grandi figure dell’erranza segnano la storia del mondo, Ulisse, Don Chisciotte, l’ebreo errante, Bouvard e Pécuchet, Bloom, Malone o l’Innominabile»[1]. Si tratterebbe di considerare che secondo Deleuze l’erranza che caratterizza la letteratura contemporanea smette di avere punti fissi, soprattutto, non ha paura di collocarsi nell’errore quanto nell’inganno, anzi, forse è proprio dalla verità che vorrebbe prendere le distanze. Soprattutto, ci si rende conto, che non si vuole più organizzare la visione in una totalità sistematizzata, anzi, se esiste una crisi per Deleuze è proprio la crisi della totalità. Sicuramente la spinta verso la sistematizzazione agisce ancora, ma mostra delle crepe, delle aperture, ed il mondo si riconfigura come un gioco che vuole parlare per aforismi, per squarci di luce, per balzi: «L’oggetto specifico dell’aforisma è l’oggetto parziale, il frammento il pezzo. Conosciamo bene, o meglio Maurice Blanchot ci ha insegnato a conoscere le condizioni di un pensiero e di una parola frammento: dire e pensare l’oggetto parziale in quanto non presuppone nessuna totalità passata da cui deriva, nessun tutto a venire che deriverebbe da esso, ma al contrario lasciar derivare il frammento da se stesso e dagli altri frammenti, facendo della distanza, della divergenza e del decentramento che li separa, ma che al tempo stesso li mescola, un’affermazione come nuova relazione con il Fuori irriducibile all’unità»[2].

La storia delle avventure di Pinocchio non è forse la storia di un corpo? Di una separazione? Di una relazione con un fuori dal ligneo involucro amorfo? (In apertura abbiamo come protagonista dichiarato non un Re, ma un Pezzo di legno). Pinocchio nasce da un taglio e subito si pone la questione del proprio corpo. Un corpo scisso come il soggetto, che è proprio la caratteristica della contemporaneità, ma nonostante questa separazione, il suo corpo-balocco sarà per sempre perseguitato ed ossessionato dal legno: «Pinocchio ha un complesso rapporto con il legno, egli scalcia contro la propria natura, e in quella resta catturato. Affonda nel legno, ma il legno è Geppetto»[3]. Pinocchio sopravvive alla scissione che lo porta a sporgere provvisoriamente sul mondo, ma quell’elemento ligneo dal quale si separa quando appare come ragazzo, ritorna costantemente, si ri-presenta spesso nelle variazioni mimetiche più disparate. Il suo stesso agire, quell’agire per balzi, per fughe, che lo caratterizza, non è un agire che procede secondo una coerente linea logica o dialettica, ma configura concatenazioni di imprevisti incalcolabili. Nessuno può prevedere quale strada prenderà Pinocchio, il quale non fa che perdersi, non fa altro che giocare a perdersi, probabilmente in un mondo dove smarrirsi è cosa sempre più problematica. Sicuramente sono disseminati nel testo di Collodi elementi territorializzanti, ma è pur vero che è proprio a questo sguardo anticipante che la fuga di Pinocchio si contrappone. Sia che si tratti di Geppetto, sia che si trovi a parlare con il Grillo parlante, sia che si svegli intrappolato in una rete da pescatori, il gesto di Pinocchio si manifesta come quell’impensato ed imprevedibile balzo che opera una costante deterritorializzazione nei confronti dello sguardo avvolgente ed ingabbiante di qualsivoglia Super-Io, soprattutto nella prima parte del Pinocchio.

Sarebbe sbagliato pensare che Deleuze non si sia mai occupato di Pinocchio. Forse non si è mai occupato di questo personaggio in modo diretto, ma lo ha fatto indirettamente ed in modo magistrale, nel suo lavoro su Carmelo Bene, soprattutto quando dice: «Ciò che è amputato o neutralizzato, sono gli elementi del Potere, gli elementi che fanno o rappresentano un sistema del Potere»[4]. Il potere si manifesta secondo alcune dinamiche, ma soprattutto il potere appare in un determinato modo, si mostra, si manifesta, di sicuro si potrebbe rincorrere una fenomenologia del potere. D’altra parte nell’uomo si è sempre manifestata, in aperta contrapposizione al potere, una fenomenologia della fuga, che non deve essere intesa come una fuga passiva, perché chi fugge costruisce legami con qualcosa nello stesso momento in cui allenta i lacci della presa del potere. Chi fugge non scappa via soltanto, ma sottrae qualcosa al territorio del potere, de-realizza almeno l’immagine della struttura che lo vorrebbe ingabbiare e lo fa in un primo momento con la derisione. Il punto è che però non si può sfuggire ai lacci del potere se non scardinando i nuclei del potere, in questo caso i nuclei del corpo stesso, soprattutto, dell’organizzazione del corpo. Ogni corpo si configura come luogo privilegiato del potere organizzato, il corpo-organismo è non solamente un corpo-cosa [Körper Ding], ma soprattutto un corpo articolato. Allora il corpo deve essere dis-articolato e Carmelo Bene non fa altro: « È da qui che una intransigenza fisiologica ha improntato le fasi operative della mia ricerca antiumanistica su disfunzioni e guasti nel linguaggio, annientando ogni connivenza tra idea-spirito e corpo che ciecamente chiede(rebbe) d’essere finalmente disindividuato, ché non s’appartiene»[5]. Così il corpo dis-organico e dis-organizzato di Carmelo Bene è stato da sempre attraversato dal corpo-macchina di Pinocchio, un corpo capace di fuggire e di operare il balzo della deterritorializzazione del Potere. Carmelo Bene si confronta più volte con questo balocco imprevedibile e lo fa proprio secondo i termini dell’infortunio: «Pinocchio è spettacolo dell’infortunio sintattico nel teatrino perverso della Provvidenza (“La bella bambina dai capelli turchini”) e dell’indisciplina cieca d’un pezzo di legno crocifisso dai pro-verbitricolori della carne: mortalità umana e sciagurata crescita umana»[6]. È proprio nella volontà di diventare umano che Pinocchio si inchioda in un corpo-organico che crocifigge e pone fine ad ogni tentativo di fuga. Il corpo-ligneo resta fuori dal corpo-organico, il quale è il vero luogo cimiteriale di ogni ribellione: una volta che si cade nella carne non ci si può più divincolare. Anche se Pinocchio è sempre attratto, ri-chiamato dal legno, riesce pur sempre a sfuggirvi, ma quello stesso gioco è improponibile con la carne, la carne è troppo avvolgente - una volta che Pinocchio diventa bambino non può che finire tutto. Dalla carne non si scappa, la narrazione deve necessariamente finire, in questo caso non ci si trova  di fronte alle solite metamorfosi già viste più e più volte: «Metamorfosi non erano mancate in passato, era stato classificato come pesce burattino, era stato fatto cane; il suo corpo infinite volte ha alluso a forme animali che mimeticamente inseguiva - capretto, can levriero, ranocchio»[7]. Ma se la potenza deterritorializzante di Pinocchio lo protegge fin quanto resta nell’elemento ligneo non c’è più nulla da fare dal momento in cui nascerà come corpo-carne. Ecco perché Carmelo Bene nella volontà di dis-organizzare il corpo-carne si farà corpo-burattino proprio nel tentativo di deterritorializzare la carne. Si potrebbe dire che tutta la tensione, tutto il tentativo di configurare l’attore come una macchina attoriale si concentri in questo ribaltamento pinocchiesco: dal corpo-carne al corpo-macchina, non a caso Bene dice che: «Da sempre non ho mai potuto prescindere dal corpo. C’è molto “corpo” nel mio lavoro di scena. Voce, cavità orale, diaframma, respiri. I personaggi via via son venuti meno. Diventati membra, dita unghie, protesi, corpi, pezzi di corpi colonizzati, volontarizzati dall’Io deriso»[8].

Il taglio dal quale nasce Pinocchio non è solo la genesi di un personaggio, ma è la genesi di un corpo differenziale e come qualsiasi differenza non fa che scardinare i due termini necessari da cui si dissocia e verso cui tende. Ogni differenza è differenza rispetto ad un punto A da cui si allontana, ma è anche differenza che la avvicina inesorabilmente ad un punto B. Il corpo-ligneo non è altro che il vettore di deterritorializzazione che si scioglie dal legno originario e si avvicina al corpo-carne - de-terminazione finale di Pinocchio. L’apparizione di questa deterritorializzazione, la sua fenomenologia non smette di comunicare qualcosa, Pinocchio non fa altro che emettere segni, soltanto che questi segni non cadono più in una struttura totalizzante, ma minano costantemente l’integrità di tale struttura di potere. Attraverso continue metamorfosi, un corpo-ligneo non fa altro che mostrare come qualsiasi struttura debba fare i conti con la congiunzione e con la separazione, instaurando una relazione con il diventare altro da sé, con il Fuori. Solo che il rapporto con l’esteriorità non passa per un semplice taglio, ma avviene attraverso una serie infinita di incidenti che trasformano qualsiasi traiettoria pre-stabilita in una variazione perpetua.

Il lavoro di Carmelo Bene su Pinocchio si colloca proprio a questa altezza, non è solamente una disarticolazione della lingua, ma anche e soprattutto una disorganizzazione del corpo, dimostrando che: «In Carmelo Bene, convergano un lavoro di afasia sulla lingua (dizione bisbigliata, balbettante o deformata, suoni appena percettibili oppure assordanti), e un lavoro d’impedimento sulle cose e i gesti (costumi che ostacolano i movimenti invece di assecondarli, accessori che intralciano lo spostarsi, gesti troppo rigidi o eccessivamente fiacchi[9]. Non è sicuramente un caso che nella rivisitazione del Pinocchio di Bene tutti i personaggi non sono altro che corpi ingombranti, manichini ingessati che si muovono come macchine. Se a Pinocchio spetta la corporeità dis-organizzata di Bene, gli altri sono destinati ad essere maschere, soprattutto il Grillo parlante non è altro che un busto immobile e granitico. Pertanto si tratta di leggere, seguendo il percorso tracciato da Carmelo Bene, in ogni incontro di Pinocchio, un tentativo dell’apparato di cattura, della struttura del Potere, di incatenare[10]questo fenomeno deterritorializzante. Pinocchio non è semplicemente il rifiuto di una crescita, ma è anche il rifiuto della sepoltura del corpo-ligneo che poi inesorabilmente arriverà: «Adulta è la terra che ricopre Pinocchio. Adulta è la crescita insensata, “civile” e disumana. La situazione Pinocchio è l’eroico rifiuto della crescita»[11]. Ma l’attacco non deve essere diretto verso il corpo tout court, ma verso ciò che si mostra come l’Adulta terra della sepoltura: l’apparato di cattura del corpo. Il problema non è tanto il corpo in sé, ma l’organizzazione del corpo all’interno di un sistema prestabilito, luogo dal quale Pinocchio cerca costantemente di sottrarsi attraverso le sue traiettorie imprevedibili. Allora le sue avventure sono una serie di variazioni continue, azioni frammentate e squilibri perpetui del corpo, ma proprio nel momento di massimo sbilanciamento si ri-trova quell’equilibrio perfetto in armonia contrappuntistica con gli interventi indiretti della Fata. Il corpo di Pinocchio è un’arma attraverso la quale scardinare forme e strutture, sia attraverso le ripetute metamorfosi dispiegate nel testo e sia nella sua capacità di sottrarsi a qualsiasi struttura ingabbiante, di scivolare via, anche sulla superficie marina. Il corpo-lingneo è capace di affrontare fin dall’inizio qualsiasi taglio, frattura, mutilazione o incendio (nonostante il fuoco sia il grande nemico del legno), dal momento che proprio l’atto inaugurale del corpo di Pinocchio avviene nella sottrazione delle gambe che si bruciano in modo inavvertito: una cosa che non può permettersi il corpo-carne. Nel manifestarsi di un tale corpo si produce una spinta eversiva contro qualsiasi tentativo di catturarlo, ed ecco perché Pinocchio, al di là di qualsivoglia consiglio, non fa altro che tracciare un cammino in modo autonomo, andando alla ricerca di un mondo prima dell’uomo, un mondo animale o magico che sia il vero regno della disobbedienza. Tutto il romanzo non vuole far altro che attribuire un corpo di carne a Pinocchio, nel sostituire la percezione e la fenomenologia del burattino con un normale ragazzo, sostituire al corpo-lingneo un corpo fatto di carne e sangue, un corpo organizzato e questa è la grande minaccia che grava su tutto il cammino del burattino: «Sarai organizzato, sarai un organismo, articolerai il tuo corpo, altrimenti non sarai altro che un depravato»[12]. Il percorso di Pinocchio è costantemente minacciato dalla possibilità di sbagliare, tutto il territorio è pervaso dal crimine, ma è nella stessa struttura teleologica del destino che si colloca il maggior pericolo: quello di diventare un corpo organizzato.

Si tratta di distinguere chiaramente nella struttura stessa del romanzo questa differenza, come mostra Garroni: «La mia lettura si baserà essenzialmente, dunque, sull’ipotesi del tutto plausibile che sia lecito leggere Pinocchio come due romanzi in uno»[13], dove tutto il Pinocchio II esplicita una tensione verso il diventar-bravo-ragazzo che non si trova nel Pinocchio I. Non che non ci sia il precipitare verso la morte, ma nel Pinocchio II si tratta di una morte messa in ombra dall’arrivo del ragazzo per bene. Il cadaverico si presenta alla fine del romanzo, ma si distoglie subito lo sguardo, come in un montaggio cinematografico che vuole mostrarci immediatamente il lieto fine. Ma qual è la minaccia che costantemente si presenta verso Pinocchio? Non si accusa forse Pinocchio di essere un perdigiorno, un vagabondo? Allora, a questo nomadismo incidentale di Pinocchio si vuole contrapporre il soggetto stabilizzato, l’uomo per bene, contro cui lotta in modo costante la disarticolazione lignea del corpo. D’altra parte si tratta proprio di questo, di rendersi finalmente conto di cosa possa un corpo, verso quali disindividuazioni tenda un tipo di corpo e verso quali individualizzazioni invece un altro tipo di corpo? Si tratta di un problema radicale della filosofia stessa, soprattutto nel pensiero di Spinoza: «La problematica centrale della sua filosofia (che, a dire il vero, era già stata delineata in precedenza, in particolare da Hobbes ma anche da altri), la sua sola questione, è: cosa può un corpo? Noi che sproloquiamo sull’anima e sullo spirito non sappiamo per niente cosa può un corpo. Il corpo è definito dall’insieme dei rapporti che lo compongono»[14]. Non è forse la vicenda di Pinocchio la vicenda di un corpo, la vicenda di un burattino? Cos’è un burattino se non una forma di costruzione di un corpo, ma di ordine diverso. Quali sono i rapportiche compongono l’insieme delle relazioni di Pinocchio? Se è vero che nel Corpo senza Organi la sperimentazione prende il posto dell’organizzazione, non è forse tutta l’avventura del burattino un tentativo di sottrarsi all’organizzazione, una deterritorializzazione che va a vantaggio di qualsivoglia sperimentazione?

Allora il destino stesso di Pinocchio si mostra in questa ambivalenza, dove, da una parte c’è il divenire incessante di un corpo-ligneo che procede per balzi, scatti, cambi di rotta, cadute, nello stesso momento in cui si costituisce un apparato di cattura che cerca di legarlo, incastrarlo nell’organismo, nell’essere avvolgente della carne. Lo stesso tornare indietro di Pinocchio, i suoi falsi pentimenti, sono un modo per sopportare e supportare quel limite che lo farebbe capitolare in un altro piano di consistenza: quello del bravo ragazzo. Esiste quindi nel corpo di Pinocchio una saggezza che lo porta a tener presente questo pericolo e nella sua volontà di restare vagabondo è prevista la ripetizione del pentimento, come possibilità attualizzante del permanere nella dis-organizzazione. Fino a che punto può spingersi la disobbedienza di Pinocchio? Fino a che punto non sarà catapultato in un altro piano di consistenza, nel piano di consistenza della carne? Dove si trova il limite che obbligherà Pinocchio a cambiare concatenamento? (Forse il punto di svolta si trova proprio nel rapporto con la Fata)

Il testo di Pinocchio è una variazione continua, struttura di due grandi frammenti incompiuti, che si incorporano a vicenda, ma non è forse questa variazione strutturale un qualcosa che si riflette sul senso stesso del testo, che vuole criticare un modello di potere nello stesso momento in cui lo costituisce e che vuole criticarlo fino a mettere in campo la morte stessa come estrema via di fuga. Ecco perché in conclusione non resta che prendere in considerazione la vocazione cimiteriale del burattino: «E come lasciar cadere, come vedremo meglio in seguito, quel che c’è di innegabilmente sinistro in quel libro non innocuo, senza che si debba far propria obbligatoriamente la vocazione cemeteriale del decadentismo?»[15].

Ma se tutto quanto il Pinocchio, come incorporazione dei suoi frammenti compositivi, non è altro che una corsa verso la morte, un confronto costante con il cadaverico, come si può giustificare questo tentativo di sottrarsi all’apparato di cattura e nello stesso tempo voler diventare un ragazzo per bene? Non si potrebbe dire che proprio nel suo diventar costantemente altro da sé, nel suo confronto continuo con la dis-organizzazione e con la soglia-limite di qualsivoglia concatenamento, ci sia quella nascosta saggezza che caratterizza Pinocchio fin dalle sue prime battute?

Il cammino verso la morte come extrema ratio di una deterritorializzazione che si manifesta come sola possibilità di fuggire verso la vita. Non c’è solo un ragazzo per bene che appare alla fine del testo, ciò che appare è, ancora una volta, il corpo-ligneo, il cadavere pinocchiesco. Non si farebbe un’onesta fenomenologia se non si tenesse conto di tutto ciò che appare e allora bisogna chiedersi in che modo appaia un’ultima volta quel cadavere? Quel cadavere è tremendamente importante, tanto da essere inserito nei disegni e nelle raffigurazioni su Pinocchio, tanto da rubare la scena al corpo-organizzato del ragazzo per bene, nonostante la voluta torsione registica verso un finale felice. Ma quel cadavere è importante perché di fronte ad un apparato di cattura seducente come quello che offre la possibilità di avere un corpo organico, di avere una vita, anche se organizzata – ecco, di fronte a tutto questo intrigante apparato di cattura, la morte, resta la sola via di fuga possibile, resta la sola deterritorializzazione auspicabile.



[1] G. DELEUZE, Faglia e fuochi locali, (1970) in L'isola deserta e altri scritti. Testi e interviste 1953-1974, trad. it di D. Borca, Einaudi, Torino 2007, p. 195.

[2] Ivi, pp. 196-197.

[3] G. MANGANELLI, Pinocchio: un libro parallelo, Adelphi, Milano 2002, p. 153.

[4] G. DELEUZE e C. BENE, Un manifesto di meno (1978) in Sovrapposizioni, trad. it. di G. P. Manganaro, Quodlibet, Macerata 2012, p. 91.

[5] C. BENE, Opere. Con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 2002, p. IX.

[6] Ivi, p. 537.

[7] G. MANGANELLI, Pinocchio: un libro parallelo, op. cit., p.168.

[8] C. BENE e G. DOTTO, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 2006, p. 30.

[9] G. DELEUZE e C. BENE, Un manifesto di meno (1978) in Sovrapposizioni, op. cit., p. 102

[10] Tutto il Pinocchio di Carmelo Bene non fa altro che giocare con una catena che lo blocca, ma dalla quale si libera costantemente

[11] N. REPACI, Pinocchio, qua uccidono bambini (1981) in PantaBene, a cura di Luca Buoncristiano, Bompiani, Milano 2012, p.103

[12] G. DELEUZE e F. GUATTARI, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di M. Carboni, Castelvecchi, Roma 2014, p. 215.

[13] E. GARRONI, Pinocchio uno e bino, Laterza, Roma-Bari 1975, p. 51.

[14] G. DELEUZE, Cosa può un corpo. Lezioni su Spinoza, a cura di A. Pardi, Ombre corte, Verona 2010, p. 55.

[15] E. GARRONI, Pinocchio uno e bino, op. cit., p. 45