Il cammino e l’uomo

“Mi siedo al margine della strada

mentre il guidatore cambia la ruota.

Non sono contento di dove vengo

e non sono contento di dove vado.

Ma, allora, perché guardo

il cambio della ruota con impazienza?”

Così Brecht in una sua poesia descrive l’ansia, il desiderio dell’uomo di viaggiare, di andare oltre, di ricercare, di dare un senso a quel “deserto e vuoto... e tenebre” che “erano sopra la faccia dell’abisso”1 dopo la creazione dell’universo.

Il problema fondamentale dell’uomo è soprattutto sapere dove andare, individuare la meta da raggiungere, altrimenti diventa un puro vagare nel deserto della vita.

Ulisse ha dato origine alla modernità, però compie il viaggio da solo, viene sballottato da un’isola all’altra. Non ha un metodo che traccia la strada e non sa osservare il molteplice. Ulisse è l’eroe che conosce il dubbio, l’ambiguità delle cose.

Amleto, l’eroe Shakespeariano solitario e disperato, scopre che la consapevolezza del male insito nella natura umana e la perdita di ogni fede nei valori etici della bellezza, hanno paralizzato la sua volontà. E’ dominato da una realtà che lo opprime e dalla consapevolezza dell’inutilità di qualsiasi azione.

Invece, il viaggio intrapreso da Dante verso la salvezza è sì individuale, ma è nello stesso tempo il cammino di una umanità smarrita che deve trovare la pace nell’ordine etico e politico.

Anche il filosofo Cacciari ha avanzato una proposta di viaggio nel suo libro “L’arcipelago” (Adelphi, 1997). L’Europa e le città possono essere viste come un “arcipelago” in cui poter viaggiare.

“L’arcipelago è uno spazio che raccoglie i distinti i quali, pur rimanendo tali, si sanno distinguere tra loro, sanno dialogare, solo se hanno un logos comune. E se questo logos non viene più riconosciuto, l’arcipelago non è più tale, non è più costellazioni di voci attraverso le quali si possa navigare.” (Cacciari, Avvenire del 17/9/1996).

Sia nell’arcipelago Europa che nell’arcipelago città, ciascuno di noi può “navigare”, può crescere come persona e come collettività, purché si scopra un logos comune. Ma se ogni persona, ogni isola, ogni voce si manifesta come semplice individualità, come qualcosa di compiuto, di soddisfatto di sé, come centro di uno spazio gerarchico, allora questa navigazione sarà soltanto guerra, esclusione, anzi perirà (Cacciari). L’arcipelago non è statico, è soggetto a trasformazione, è soggetto alle stesse leggi che regolano l’universo. Per viaggiare è necessario orientarsi, e per orientarsi è necessario conoscere il cambiamento.

Questa esigenza è stata poeticamente espressa anche da Hölderlin nella poesia “Arcipelago” allorquando invoca il Dio del Mare affinché gli dia la possibilità di intendere “la lingua degli dei” che è “l’alternarsi e il divenire”:

O Dio del mare! Risuonami spesso nell’animo in modo che sopra le acque

impavido si muova lo spirito a nuoto…

E la lingua degli Dei, l’alternarsi e il divenire intenda”.

Ma al di là del semplice divenire, per noi europei, c’è qualcosa che ci accomuna, c’è un logos che ci dà la possibilità di dialogare: dal punto di vista storico è il sapere filosofico come sapere scientifico disinteressato e non di immediata applicazione, e i valori cristiani in particolare.

Ognuno di noi deve riconoscere sé stesso come persona e vedere negli altri pari dignità. Ogni persona è cittadina in quanto tale e non già perché appartiene ad uno Stato. “Il cittadino anagrafico italiano è innanzitutto cittadino universale e poi anche cittadino dell’Unione Europea” (Papisca).

Il valore dell’uomo sta nel suo rapporto con l’intero (Rousseau). Gibran ci offre una visione divina della realtà, perché esiste qualcosa in comune a tutto il molteplice. Egli scrive in una sua poesia:

... affinché conosciate i segreti del cuore, e in quella conoscenza diventiate un frammento del cuore della Vita2.

I distinti non dovranno rimanere isolati, né annullarsi nell’unità, ma devono saper dialogare. E P. Turoldo nei suoi “Canti ultimi” ci offre una proposta di viaggio che può intraprendere anche chi non crede:

“Fratello ateo, nobilmente pensoso

alla ricerca di un Dio che io non so darti, attraversiamo insieme

il deserto.

Di deserto in deserto andiamo

oltre la foresta delle fedi

liberi e nudi verso il nudo essere

e là

dove la Parola muore

abbia fine il nostro cammino”3

Nella società di oggi assume un ruolo fondamentale l’intellettuale, il quale ha la missione “di prendere coscienza dei problemi fondamentali che stanno alla base della crisi contemporanea e che condizionano, con la loro soluzione, il corso della storia contemporanea e l’orientamento di quella futura” (Giorgio La Pira, 1944).

L’intellettuale ha il dovere di dire la verità, che inizia col rifiuto di qualsiasi fede cieca in un’autorità infallibile. Spesso per pigrizia intellettuale si pensa che basti non credere in Dio per essere uno spirito libero, cadendo poi, senza accorgersene, nell’errore di obbedire agli idoli delle convinzioni, delle opinioni correnti, dei pregiudizi sociali e culturali.

L’intellettuale dovrebbe stimolare la coscienza critica, svelare le debolezze dell’individuo e della società, iniettarvi qualche nuova energia vitale; dovrebbe sempre sentirsi in esilio, e ricordare agli altri intorno a lui che anch’essi lo sono soprattutto quando un potere vuole convincerli che si trovano già nella terra Promessa.

Egli dovrebbe essere come i cristiani i quali

“abitano ciascuno per la propria patria, ma come immigrati

che hanno il permesso di soggiorno…

Ogni terra straniera per loro è patria,

ma ogni patria è terra straniera.

Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo”

(Dalla Lettera a Diogneto).

In tal modo far cultura diventa tensione ideale protesa alla creazione di una “nuova vivibilità del mondo”, fondata su esperienze di “bene comune e di felicità sociale”. Il narrare – afferma il teologo Metz – è l’esperienza dei poveri di Dio, dei piccoli, degli oppressi, di coloro che hanno la necessità che le cose cambino.

Nel tempo presente la nostra società civile è afflitta dalla dimensione della disoccupazione, dalle basse e minime retribuzioni ai pensionati, ai meno fortunati, agli emarginati. E’ afflitta dalla solitudine legata al fenomeno dell’immigrazione extracomunitaria e ad una vera e propria segregazione generazionale per la tendenza alla convivenza di bambini con bambini, di giovani con giovani, di adulti con adulti, di anziani con anziani.

Inoltre è necessario non ignorare né trascurare un’altra specie di povertà che riguarda il vuoto di cultura ed è presente in una larghissima categoria di esclusi e di emarginati, ai quali è impedita ogni possibilità di approfondimento delle tematiche esistenziali, non potendo partecipare ai valori della storia e delle scienze, alla dinamica dei rapporti interpersonali.

Oggi si impone la necessità di impegnarsi in una capillare diffusione della cultura, perché essa sola ci dà la possibilità di interpretare la realtà, di valutarla criticamente e di orientarci nel mondo.

La rigenerazione, la rinascita delle nostre zone, l’uscita dall’immobilismo, l’apertura e l’accettazione dell’altro come persona, si può avere solo attraverso la diffusione di una cultura che sia espressione di valori condivisi, di valori sovrastorici affermati dalla nostra Costituzione e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Fanciullo.

Non viviamo in una società senza valori: i valori esistono e sta all’uomo realizzarli col suo impegno concreto, giorno dopo giorno, in un lavoro continuo che deve mirare a perseguire la pace, la solidarietà, la fratellanza, l’amore per il prossimo, l’uguaglianza. Sentirci ripetere e ripetere continuamente che viviamo in un mondo cattivo, falso e così via, è il maggior pericolo del nostro tempo.

Se guardiamo alla storia, scopriamo che attualmente “viviamo nel miglior mondo che si sia fino ad oggi avuto. E’ un mondo cattivo, perché ce n’è uno migliore. Il nostro desiderio, la nostra speranza, la nostra utopia è ancora e sempre quella di trovare “un mondo ideale”. E questa ricerca di un mondo migliore dobbiamo proseguirla.

Rispetto al passato abbiamo una profonda comprensione della realtà e controlliamo meglio il corso della vita. Tuttavia, in questo processo di crescita, abbiamo perso alcune verità di fondo. I nostri avi – è stato osservato – ignoravano molte cose, eppure “parlavano con gli angeli”. Gli uomini primitivi temevano i lampi e i tuoni e i poeti dell’antichità mediterranea avevano popolato il Cielo di divinità capricciose, che guardavano le miserabili contese degli uomini e intervenivano per punire i superbi e i ribelli.

Ma qualcuno “ha portato disordine in cielo”. Gravi pericoli minacciano la sopravvivenza di popoli inermi e l’esistenza della civiltà faticosamente costruita nel corso di millenni. Per questo non possiamo più volgere lo sguardo verso l’alto “senza temere lampi e tuoni ben più micidiali di quelli che minacciavano i nostri lontani antenati. Agli uomini innocenti è stato sottratto il cielo come “luogo della poesia e della favola”4.

Oggi “non spira più il vento della vita” perché è stato cancellato dal lessico quotidiano la dolcezza, la meraviglia, la solidarietà, l’incanto, l’ideale, la giustizia, la libertà, l’amore, la poesia.

Il volto dell’uomo si è sciupato. Non è più trasparente come il volto della vita. “Forse quello dell’uomo è un volto smarrito dietro le siepi delle ribellioni e dei fallimenti” (Raffaele Nogaro). Spesso non riusciamo più a comunicare, perché il nostro linguaggio manca di memoria, ha perso il contatto con l’origine, si è ammalato della banalizzazione in cui siamo sommersi…”5.

La desolazione degli spiriti è la nuova barbarie del nostro tempo. “Invece così non può essere” – scrive Raffaele Nogaro – perché “il cielo stellato brilla ancora” e tutte le “insegne della speranza garriscono al vento con impeto rinnovato. E’ importante riscoprire i segni e profondamente il   senso dei segni. Anche la stella di Betlemme è un segno. E tutte le stelle del cielo sono grandi segni”.

Per ritonare a comunicare, per guarire le parole non serve qualche invenzione linguistica né alcuna nuova idea, ma un “ritorno consapevole all’origine di quella parola uscita dal cuore di Dio”6.

Note

1 Thomas S. Eliot, La Rocca, Poesie, Mondadori 1971

2 G. Kablil Gibran, Il Profeta, Fabbri Editore, 1997, p. 85

3 Turoldo David M., Canti ultimi, Adelphi, 1997

4 Luigi Malerba, Che vergogna scrivere, Mondadori, Milano 1996, p. 72

5 Paola Ricci Sindona, III Convegno Ecclesiale, Palermo, 1955

6Ibidem