La sacralità della vita nella tradizione occidentale
Si sovviene far cominciare le esposizioni tradizionali della storia occidentale dalla civiltà greca, un popolo di arte, cultura, filosofia e legge, tuttavia il loro senso della vita era molto ben diverso dal nostro e non mi riferisco semplicemente alla leggenda spartana della rupe Tarpea che, come ben sappiamo, è divenuta l’iconografia dell’infanticidio più spietato (messo in dubbio da diversi antropologi), ma anche al più erudito popolo ateniese.
Commettere infanticidio è, per noi occidentali moderni, un atto così vile che soltanto uno spartano poteva accettarlo come prassi quotidiana, ma in verità anche Atene contemplava la medesima pratica. Gli ateniesi, infatti, non obbligavano per legge a disfarsi di neonati deboli o irrimediabilmente malati, ma lasciavano ogni sorta di decisione al padre e se costui decideva di seppellire vivo il figlio, di gettarlo da un monte oppure ucciderlo in altri mille modi, la legge ateniese semplicemente non condannava l’atto. Questo, però, non significa che il maestoso popolo greco fosse in realtà un popolo di scellerati, anzi, si cercava in tutti i modi di preservare la vita e l’infanticidio era pratica accettabile solo dinnanzi a malformazioni evidenti, infatti il suicidio dell’uomo adulto e sano era osteggiato da personalità quali Pitagora, Socrate, Platone, Aristotele e stesso il padre della medicina, Ippocrate, lo rifiutava con dure parole: «Se qualcuno mi dovesse chiedere una droga per procurare la morte, io non gliela darei, né gli darei un simile consiglio, similmente a nessuna donna darei un medicinale abortivo».
Ora, spostandoci nel mondo romano, ci rendiamo conto che la cultura greca è stata assimilata in ogni sua forma e, oltre alla filosofia e all’arte, i romani hanno ereditato anche il medesimo senso “bioetico”, scriverà infatti lo stoico Seneca: «noi distruggiamo i nati mostruosi e anneghiamo i nostri figli se hanno costituzione debole e deforme», tuttavia se il suicidio dell’uomo sano era nella quasi totalità dei casi inammissibile per un greco, l’uomo romano, sulla scia del pensiero stoico, ne accettava la pratica anche per casi di estremo disinteresse alla vita.
Con l’arrivo del Cristianesimo, infanticidio e suicidio iniziarono a prendere una piega diversa e seppur sia inappropriato parlare di Chiesa nei suoi primissimi tre secoli di storia, molti pensatori furono affascinati dalla Pax Christi professata nelle comunità cristiane autonome, da ritenere immorale l’uccisione di uomini a prescindere dal come e dal perché.
Il Cristianesimo portò con sé la convinzione che tutti gli uomini fossero immagine di Dio, anche i nati deformi ed i malati perenni, dunque il suicidio non era più semplicemente un atto da vietare, ma un vero e proprio crimine nei confronti di Dio, un palese rifiuto del più grande dono divino, ovvero la vita, tuttavia in un clima in cui la teodicea rientra in un percorso divino e l’unica morte accettabile è quella naturale, si apre una possibilità di suicidio. I padri delle primissime comunità cristiane, infatti, ritennero giusto il suicidio della vergine stuprata o della fanciulla che decide di uccidersi piuttosto che consegnare la propria purezza ad un uomo libidinoso, ma con il passare del tempo e con il formarsi della Chiesa nel vero senso della parola, anche il suicidio della vergine venne ritenuto illegittimo agli occhi di Dio, soprattutto quando Agostino affermò che la castità è più una questione di spirito che di corpo.
La Chiesa vietò, dunque ogni forma di uccisione umana, perfino la pena capitale venne abolita in un primissimo momento, rifacendosi in particolar modo alle figure di Cristo e Pietro, entrambi finiti sul “patibolo”, tuttavia la morale religiosa era obbligata a scontrarsi con la questione geopolitica.
Come punire il ladrone oppure l’omicida? Come difendersi dagli invasori?
Appare fin troppo evidente che la virtù estremamente pacifica del Cristianesimo si dovette piegare alla realtà quotidiana umana, infatti non ci volle molto per rendere giusta la pena capitale – a patto che i preti non prendessero visione all’atto – e sulla stessa scia venne accettata anche la pratica belligerante.
La Chiesa, con l’accettazione di pena capitale e guerra, si trovò dinnanzi ad un controsenso piuttosto evidente, ovvero: uccidere esseri umani è sbagliato, ma sia il patibolo che la guerra uccidono esseri umani! Bisognava trovare una soluzione logica, una soluzione che arrivò presto.
Il problema fu risolto nel momento in cui il criminale ed il soldato nemico non furono più visti come uomini ma come “non-innocenti”, a questo punto divenne immorale uccidere l’innocente, ma non chi l’innocenza l’ha persa perseguendo le vie del vizio e della criminalità, in senso più tecnico, come ci ricorda Rachels «una persona è innocente a meno che, con la sua condotta sbagliata, abbia perso il diritto a non essere uccisa da altri» e da qui possiamo facilmente intuire il perché rapinatori, omicidi e soldati nemici non possano essere ritenuti “innocenti”, ma come comportarsi dinnanzi ad una “legittima difesa”?
La risposta a questa domanda non ha un valore univoco, anzi è stata oggetto di interesse per secoli, ad esempio Agostino, uno dei massimi fautori della guerra giusta, riteneva l’uccidere per difesa un qualcosa da evitare, infatti «non è giusta quella legge che garantisce al viandante il potere di uccidere un rapinatore per strada», tuttavia Tommaso era di pensiero diverso ed affermava che l’autodifesa «non è illegale, dato che è naturale per tutti cercare di mantenersi in vita». Possiamo dire che generalmente la Chiesa adottò grossomodo l’idea tommasiana ed offrì ai civili la possibilità di difesa, tuttavia divenne anche scontato per i civili uccidere pretendenti in amore o per futili motivi, ostentando, poi, il diritto alla difesa, ma il vero problema fu in verità un altro, nessuno aveva preso in considerazione la morte accidentale.
Divenne, dunque, necessario passare da un uccidere l’innocente è sempre sbagliato a uccidere intenzionalmente l’innocente è sempre sbagliato, ponendo l’accento proprio sul concento di intenzione, in questo modo l’uomo che investe il vicino col cavallo non è colpevole nel momento in cui l’azione è priva di intento omicida ed è proprio qui che trova sede il concetto agostiniano in cui non è l’azione fisica ad avere bontà morale, bensì «è il cuore ad essere la sacra sede della virtù».
Il concetto di intenzionalità trovò sede anche nelle pratiche belliche esplicandosi nella differenziazione tra il pianificare di uccidere qualcuno e l’uccidere qualcuno come effetto collaterale preterintenzionale, ad esempio se le frecce scoccate dal mio arco finiscono con l’uccidere un contadino che con la battaglia in corso non ha nulla a che vedere, io posso ritenermi innocente poiché non era mia intenzione uccidere quel contadino, il problema, però, si complica nel momento in cui la mia previsione bellica mi porta alla certezza che un determinato attacco militare comporti inevitabilmente la morte di alcuni innocenti, in questo caso le morti sono accidentali, ma non del tutto preterintenzionali.
La soluzione dell’enigma la si ritrova nella dottrina del doppio effetto elaborata in primo luogo da Tommaso d’Aquino e formulata in modo completo dai teologi di Salamanca nel XVI secolo.
Secondo tale dottrina, un’azione che ha un duplice effetto – negativo e positivo – per essere compiuta deve soddisfare completamente quattro condizioni:
I) L’atto stesso, indipendentemente dalle sue conseguenze, deve essere permesso.
II) L’effetto cattivo non può essere intenzionale, solo il risultato buono può essere l’obiettivo intenzionale dell’atto.
III) Il risultato cattivo non può essere usato come mezzo per ottenere il risultato buono, ma esso deve essere solo una genuina ed inevitabile conseguenza dell’atto.
IV) La quantità di bene ottenuta deve essere sufficiente a superare il male compiuto dal risultato cattivo.
Con la teoria del doppio effetto, la Chiesa è giunta ad una piena maturità dottrinale in campo geopolitico, riuscendo, altresì, a mantenere saldi i principi di innocenza del primissimo cristianesimo scacciando, dunque, ogni forma di infanticidio e suicidio, elementi culturali che hanno attraversato la storia e che tuttora sono presenti e si palesano in più occasioni nella nostra quotidianità, basti pensare alle proteste contro l’aborto oppure ai medici obiettori di coscienza che negano l’eutanasia in virtù della sacralità della vita.
Bibliografia essenziale
- Ippocrate, Giuramento.
- Seneca, De Ira, I.
- Seneca, Lettera Ad Lucilium, 58.
- Agostino, De Civitate Dei, IV.
- Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II, II, Q.64, art.6.
- Tommaso d’Aquino, Summa Contra Gentiles, III, II, 112.