Simone Weil e l’impersonale fra l'ombra e Dio

È forse impossibile scrivere di Simone Weil senza scivolare nell’oriente deserto dell’indicibile o nella contraddizione. La sua è una mistica della sofferenza nella quale trova posto la persona, lascito impersonale e silenzioso di un Dio che non esiste, al di fuori della vaghezza dell’incoerenza. “Per alcuni il pensiero di Simone Weil è così irritante che quasi non lo considerano un pensiero; costoro le rimproverano una mancanza di rigore tanto più fastidiosa quanto più è indiscutibile la rigorosa esigenza a cui questo pensiero corrisponde[1]”. Eppure, nessuno più della giovane filosofa francese, morta prematuramente a soli 34 anni, ha saputo scandagliare nel mare della necessità e lasciarci frammenti vivi di umanità resistente. Rivoluzionaria militante che ha superato il marxismo, mistica di una religione che non esiste, che è uno scavare con mani sofferenti nella nudità della vita per trovare i contorni della speranza nell’impossibile. Insegnante che al Puy suscita scandalo, che non disdegna di distribuire lo stipendio fra gli operai in sciopero. Lavora nelle fabbriche metallurgiche di Parigi compatendo l’alienazione della classe operaia, si unisce nel 1942 in Inghilterra alle operazioni della France Libre. Digiuna e vive con i francesi della zona occupata tutte le miserie della guerra. Si ammala di tubercolosi a causa delle privazioni che aveva deciso di imporsi, e già cagionevole si spegne il 24 agosto del 1943. Non è difficile immaginarcela attendere la notte nella camera che dava su prati e boschi del sanatorio di Ashford, dove fu portata e dove si congedò dal mondo – pochi giorni dopo aver affermato: “Una bella camera per morirci” – dopo aver sperimentato le umiliazioni della disillusione e i morsi di una profonda solitudine interiore. Con l’emergere dei totalitarismi, in ogni ambito della società si andava svuotando progressivamente il senso delle azioni e delle parole: con il progredire incontrollato della tecnica il Novecento – fenomeno che si riverberava finanche nella letteratura – operava una completa separazione dei segni dai significati, a beneficio esclusivo dei primi. Le prime avvisaglie di questo processo sono descritte in uno scritto del 1934, al quale spesso Simone Weil si riferiva – nella corrispondenza con amici e familiari – come al suo “Testamento” o, scherzosamente, “Grand Oeuvre[2]”. Le Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale si collocano, infatti, a valle di un periodo determinante per Simone Weil, una vera e propria cesura biografica, come riconosciuto da Simone Pétrement, amica e biografa della filosofa francese. Dopo il viaggio a Berlino, in cui era al vaglio la situazione politica e sociale del proletariato tedesco, le Riflessioni possono a buona ragione definirsi come un resoconto delle idee politiche maturate prima dell’ingresso in fabbrica. Prima di sperimentare l’alienazione della classe operaia che la avvicinò empaticamente a quel mondo di esclusi, naturale destinatario del bene di un Dio che non si vede, ma che si lascia accennare negli stenti dell’assenza. Come sappiamo, “Simone Weil rifiutò in vita di appoggiarsi a modelli di pensiero o schemi preconfezionati con cui guardare il mondo e tutt’oggi non si lascia etichettare da chi prova a farne un oggetto di studio[3]”. Eppure, secondo quanto scrive Simone Pétrement, è possibile, leggendo l’ultima produzione della Weil – in particolare ci si riferisce agli ultimi saggi degli inizi del ’43 e a frammenti connessi[4] – immaginare che volesse tracciare almeno i capisaldi di una dottrina[5]. Dottrina in grado potenzialmente di essere a fondamento di una grande filosofia sociale che, dalle ceneri del pensiero di Marx, muove i suoi passi verso una fervente cristianità eterodossa, personale, vissuta nell’impossibilità e nella limitazione. Marx avrebbe cercato di mettere da parte, quella che platonicamente Simone Weil ritiene la contraddizione essenziale nella vita umana tra il bene e la necessità, o quella equivalente tra la giustizia e la forza. “Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è. Lo sappiamo per via sperimentale. Essa è reale in fondo al cuore degli uomini. La struttura di un cuore umano è una realtà fra le realtà di questo universo, non diversamente dalla traiettoria di un astro. […]. Se la giustizia è incancellabile nel cuore dell’uomo, vuol dire che essa ha, in questo mondo, una sua realtà[6]”. “Del ‘socialismo scientifico’ si è fatto un dogma, esattamente come è avvenuto per tutti i risultati conseguiti dalla scienza moderna”, scriverà ancora nel 1934, nel già citato saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione, fino ad affermare: “Lo stesso ‘socialismo scientifico’ è rimasto monopolio di alcuni e gli ‘intellettuali’ purtroppo hanno nel movimento operaio gli stessi privilegi che nella società borghese”. Allo stesso modo in Y a-t-il une doctrine marxiste? si legge: “L’essere stesso dell’uomo, altro non è che uno sforzo verso un bene ignoto. E il materialista è un uomo. Perciò non può impedirsi di giungere a considerare la materia come una macchina per la fabbricazione del bene[7]”. In scena c’è dunque il dramma esistenziale che dilania l’uomo, che costituisce il tema centrale intorno a cui gravitano gli scritti weiliani. Da un lato c’è il dilemma della forza, dietro la quale si annida il male, dall’altro la ricerca della salvezza e della giustizia: la fragilità del bene. Da qui la scelta di rinunciare al potere in favore del bene. In questo senso l’anarchismo in Simone Weil è nell’aver compreso che alla base del diritto c’è un’esigenza di regolamentare i rapporti economici di forza presenti nella società: ciò, oltre ad essere a fondamento della distinzione fra gli uomini, li allontana da ogni forma di riconoscimento del bene, connesso all’inviolabilità della persona. Siamo ben oltre le scialbe concessioni del diritto, che non tengono conto della dimensione sacrale della persona o alle, sia pur brillanti, conclusioni del personalismo di Emmanuel Mounier[8], con il quale abbiamo frammenti di corrispondenza. La persona è sacra nell’impersonale, nell’inesploso silenzio che il debole rende all’arroganza di un giudice e che prende il largo dai rapporti di forza. I Greci sono stati i primi a riconoscere l’esistenza di una giustizia in virtù della quale anche il forte non lo è mai abbastanza e il debole non è condannato alla fragilità in eterno. A Simone Weil è cara l’esperienza della giustizia greca: l’Occidente ha smarrito il senso di questa nozione nella quale si palesava un concetto di limite che non fosse solo ausiliario della tecnica, ma una condotta di vita. “Il limite è la prova che Iddio ci ama[9]” leggiamo ne L’ombra e la grazia. È di questo sentire che deve riappropriarsi l’uomo. La legge della necessità che domina nell’universo greco dissolve il sogno umano della forza. Già dalla lettura dell’Iliade sembrano delinearsi due strade che portano lontano dal miraggio tracotante della forza, entrambe legate alla necessità: tutti gli uomini soggiacciono a rapporti di forza e all’imprevedibilità del caso; dalla necessità della realtà si è in grado di comprendere la forza e la giustizia e mettere in dialettica i contrari. “Ogni tentativo di giustificazione del male diverso da: ‘È così’, è una colpa contro questa verità”[10]. Non è possibile non guardare al male con consapevolezza per trovare Dio nella contraddizione dell’assenza. Con le parole della filosofa francese: Questo mondo, in quanto totalmente vuoto di Dio è Dio medesimo. La necessità, in quanto assolutamente altro dal bene, è il bene medesimo. Per questo ogni consolazione nella infelicità allontana dalla verità e dall’amore. Questo è il mistero dei misteri. Quando lo si raggiunge si è al sicuro[11]”. “L’assenza di Dio è la più meravigliosa testimonianza dell’amore perfetto; e per questo la pura necessità, la necessità, così manifestamente diversa dal bene, è tanto bella[12]”. È la necessità della fine della guerra, quella a cui segue la purezza di uno sguardo disincantato sul mondo e sull’umanità: quasi una reazione necessitata all’abbrutimento materialistico dell’uomo. Contro questo abbrutimento ogni risposta del diritto non può che essere incompleta. “La nozione di diritto, proprio per la sua mediocrità, trascina naturalmente al suo seguito quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona al cosiddetto sviluppo, si farebbe un male ancora peggiore. Il grido degli oppressi scenderebbe ancora più in basso del tono della rivendicazione, assumendo quello dell’invidia[13]”. Il diritto, cogliendo l’occasione per una digressione, come portato della sua evoluzione illuministica, si sofferma implicitamente su un giudizio di valore sull’uomo, sia pure al di sopra di ogni apprezzamento valutabile. La domanda che sottende è: quanto vale l’uomo? Invece, l’uomo – anzi, più correttamente la persona – che è possibile ricostruire nella mistica weiliana è quanto di più lontano dal soggetto di una ragione pratico-morale, che si fa forte della sua elevazione, sia pure al di là di ogni intrinseca mercificazione: non è l’uomo che riscopre dignità e ragione. Il problema resta il riferimento, quello kantiano della Metafisica dei costumi: “L’uomo considerato come persona, cioè come soggetto di una ragione pratico-morale, si eleva al di sopra di ogni prezzo, perché in quanto tale (homo noumenon) deve essere non semplicemente stimato per raggiungere fini di altri, e nemmeno fini suoi propri, bensì come fine in sé; egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto [einen absoluten innern Wert]), ragione per la quale egli costringe al rispetto di sé tutti gli esseri razionali del mondo, potendo misurarsi con ciascun altro della sua specie e stimarsi loro uguale[14]”. In ciascuna singolarità si nasconde l’inviolabile. Ma il sacro nella persona è al di là del diritto, al di là di qualsivoglia riferimento di valore, al di là della stessa dignità che rende l’uomo simile all’altro uomo. È lontano da connessioni illuministiche, personalistiche[15] e persino oltre ogni egualitarismo cristiano. “Si può dire senza degradarsi: ‘la mia persona non conta’, ma non ‘io non conto[16]’”. Nella persona c’è il sacro ove vi sia uno sforzo di verità, che è comunque lontano da ogni discriminazione. La verità implica lo sforzo di penetrare nel mistero dell’assenza divina, eppure, è necessario abbandonarsi ad essa. “Chi pone la vita nella propria fede in Dio può perder la sua fede. Ma chi rimette la sua vita in Dio stesso, non la perderà mai. Metter la propria vita in ciò che non si può affatto toccare. È impossibile. È una morte. E questo bisogna[17]”. Il cristianesimo di Simone Weil è assolutamente eterodosso, personale: ella non può riconoscere la Chiesa come istituzione e depositaria di una verità dogmatica. “Iddio e il sovrannaturale sono celati e senza nome nell’anima. Altrimenti si rischia di avere, sotto quel loro nome, qualcosa di immaginario (quelli che hanno nutrito e vestito il Cristo non sapevano che fosse il Cristo). Senso degli antichi misteri. Il cristianesimo (cattolici e protestanti) parla troppo delle cose sante[18]”. La sua è una verità che confina con l’assurdo: una sofferente accettazione del nulla che anima il reale, speculare all’impersonale che si annida nell’uomo. L’uomo che per ritrovarsi non può non divincolarsi dal collettivo. “L’essere umano non sfugge al collettivismo se non elevandosi al di sopra del personale e penetrando nell’impersonale. […] Vi sono circostanze in cui una forza pressoché infinitesimale è decisiva. Una collettività è molto più forte di un uomo solo; ma qualsiasi collettività ha bisogno, per esistere, di operazioni – l’addizione ne è l’esempio elementare – che si compiono unicamente in uno spirito in stato di solitudine. Questo bisogno dà la possibilità di una presa dell’impersonale sul collettivo, purché si sappia escogitare un metodo per farne uso. Chi è penetrato nell’ambito dell’impersonale vi trova una responsabilità nell’ambito di tutti gli esseri umani. Quella di proteggere in loro non già la persona, bensì ogni fragile possibilità di passaggio nell’impersonale che la persona ricopre[19]”. Impersonale che è il bene, l’essenza di Dio, da cui si allontana inevitabilmente lo Stato nelle sue manifestazioni arbitrarie di potere, ma anche ove si limitasse ad essere garante di diritti. Essi sarebbero in ogni caso motivo di diseguaglianza. Ne La persona e il sacro, opera scritta a Londra nel 1943 prima della morte, si legge che la democrazia è estranea al bene, così come il possesso di un diritto, che implica che se ne possa fare un buono o cattivo uso, a differenza del compimento di un obbligo. La democrazia implica la soggezione dell’uomo al collettivo, ciò la rende per sua natura estranea al bene. “Preservare la giustizia, proteggere gli uomini da ogni male significa anzitutto impedire che venga loro fatto del male. Per coloro che lo hanno subito significa cancellarne le conseguenze materiali, mettere le vittime in una situazione tale che la ferita, se non è penetrata troppo in profondità, guarisca naturalmente grazie al benessere. Ma se la ferita ha straziato tutta l’anima, significa inoltre e anzitutto placarne la sete dando loro da bere del bene perfettamente puro[20]”. L’estraneità al bene è fonte di angoscia, è malinteso, abrasione. “Ci si dirige verso una cosa perché si crede che essa sia buona; e vi si rimane incatenati perché è divenuta necessaria[21]”. E la necessità non è altro che il velo di quel Dio che non si vede. Non è sbagliato parlare di Simone Weil come di una cristiana non battezzata che attende, o forse scorge additando, accenni di Dio sulla soglia di una chiesa spoglia. Il suo è lo sguardo degli ultimi, degli operai, degli indifesi: il suo è un cristianesimo non ortodosso, sofferente, in grado di trovare Dio nella contraddizione dell’assenza. “Nulla di ciò che esiste è assolutamente degno di amore. Bisogna quindi amare ciò che non esiste. Ma questo oggetto d’amore che non esiste non è una finzione. Perché le nostre finzioni non possono essere più degne d’amore di noi, che non lo siamo[22]”. Se l’uomo non sa riconoscere se stesso, è ben difficile che possa riconoscersi nel nulla impersonale che gli dà nome e che non sa dello stare in guardia di uno sguardo. “Iddio può essere presente nella creazione solo nella forma dell’assenza[23]”. In questo contraddirsi c’è il disvelamento sofferente del divino. “‘Nell’oriente deserto...’ Bisogna essere in un deserto. Perché colui che dobbiamo amare è assente[24]”. Nella verità è compresa la bellezza e ogni sorta di bene. “La verità e la bellezza abitano questo ambito delle cose impersonali e anonime. Ed è questo ambito ad essere sacro”[25]. “La verità, la bellezza, la giustizia e la compassione sono beni sempre, ovunque”. Nella verità si annida la sventura dell’incomunicabile, quella dell’uomo che tace, del condannato dinanzi al tribunale della sofferenza. “Il passaggio all’impersonale si opera solo mediante un’attenzione di qualità rara, che non è possibile se non nella solitudine. Non solo solitudine di fatto, ma anche solitudine morale[26]”. L’impersonale ha sede in uno sforzo di verità. In questo senso la Weil edifica una teologia in frammenti in cui la sofferenza può scardinare le porte. “La sofferenza redentrice è quella che mette a nudo la sofferenza e la porta nella sua purezza, fino all’esistenza. Ciò salva l’esistenza[27]”. “Vuotarci; ci espone a tutta la pressione dell’universo che ci circonda[28]”. L’impersonale suona nel pensiero di Simone Weil come una contraddizione, tuona come un grido di giustizia – che non può che essere estranea al mondo del diritto, maschera della vendetta di tipo punitivo dello Stato – che non è possibile trattenere. “Tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, nient’altro lo è”: un sentimento inarticolato che non si piega al discernimento. Simone Weil diventa, quindi, testimone della grandezza di Dio, che si lascia accennare nella miseria della vita, una grandezza impossibile, che abita i luoghi della sofferenza del Cristo sulla croce. Nella sua impossibilità Iddio non disvela all’uomo inconsapevole la leggerezza dell’impersonale, che è dietro la fragilità che tace, dietro un grido che si lascia ascoltare e che parte dagli umili. “Non possediamo nulla al mondo perché il caso può toglierci tutto eccetto il potere di dire Io. Quel che bisogna dare a Dio, cioè distruggere, è questo. Non c’è assolutamente nessun atto libero che sia permesso, eccetto la distruzione dell’Io[29]”. Alla fine dei giorni c’è un “Io”, che fa i conti con tutto il dolore del mondo e che si monda, dischiudendo gli occhi al cielo, forse consapevole che dietro la vaghezza dell’inespresso, dietro tutta quella voglia di tacere, c’è Dio. “La realtà del mondo è fatta da noi, col nostro attaccamento. È la realtà dell’io trasportata da noi nelle cose. Non è affatto la realtà esteriore. Questa può essere percepita solo col totale distacco. Quand’anche non rimanesse che un solo filo, vi sarebbe ancora attaccamento[30]”. “Iddio ha potuto creare solo nascondendosi. Altrimenti ci sarebbe stato egli solo. Anche la santità deve essere quindi nascosta, persino alla coscienza, entro una certa misura. E deve esserlo nel mondo[31]”.


Note

[1] M. BLANCHOT, L’infinito intrattenimento. Scritti sull’«insensato gioco di scrivere», trad. it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino 1977, p. 142.

[2] S. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, Adelphi, Milano 1994, p. 270-276.

[3] G. FIORI, Simone Weil. Una donna assoluta, La Tartaruga, Milano 1991, p. 7.

[4] Si veda Luttonsnous pour la justce?, Étude pour une déclaration des obligations envers l’être humain, Cette guerre est une guerre de religions, Note sur la suppression générale des partis politiques, tutti raccolti in écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1955; un altro saggio è citato di seguito.

[5] S. PÉTREMENT, La vita di Simone Weil, op. cit., p. 618

[6] S. WEIL, La prima radice, trad. it. di F. Fortini, SE, Milano 1990, pp. 218-219.

[7] S. WEIL, Y a-t-il une doctrine marxiste? in Oppression et liberté, Gallimard, Paris 1955, pp. 227-228.

[8] Mounier persegue il rinnovamento delle istituzioni comunitarie e la realizzazione di una società personalistica (persona di persone) attraverso il rifiuto di ogni forma di collettivismo e di individualismo. Concezione illustrata in diversi saggi esposti sulla rivista Espirit (1932-1934), da lui fondata e raccolti nel volume Révolution personaliste et communautaire, F. Aubier, Paris 1935.

[9] S. WEIL, L'ombra e la grazia, Bompiani, Milano 2020, p. 191.

[10] Ivi., p. 191.

[11] Ivi., p. 197.

[12] Ivi., p. 191.

[13] S. WEIL, La persona e il sacro, op. cit., pp. 32-33.

[14] I. KANT, Die Metaphysic der Sitten, in Akademie-Ausgabe [1797], vol. VI, pp. 434-435.

[15] Ci si riferisce ancora al superamento della concezione personalistica di Emmanuel Mounier, per la verità non sistematica come quella di Ricœur in Muore il personalismo, ritorna la persona, primo di due saggi pubblicati in italiano in un volume a cura di I. Bertoletti, La persona, Morcelliana, Brescia 1997.

[16] S. WEIL, La persona e il sacro, Adelphi, Milano 2012, p.11.

[17] S. WEIL, L'ombra e la grazia, op. cit, p. 197.

[18] Ivi., p. 101.

[19] S. WEIL, La persona e il sacro, op. cit., p22.

[20] Ivi., p. 49-50.

[21] S. WEIL, L'ombra e la grazia, op. cit, p. 93.

[22] Ivi., p. 197.

[23] Ibid.

[24] Ibid.

[25] S. WEIL, La persona e il sacro, op. cit., p. 19.

[26] Ibid.

[27] S. WEIL, L'ombra e la grazia, op. cit, p. 165.

[28] Ivi., p. 167.

[29] Ivi., p. 49.

[30] Ivi., p. 29.

[31] Ivi., p. 69.