Sovranità come rivendicazione di spazi politici
L’etichetta dei padroni della parola
Bisognerebbe, con ritrovato buonsenso, rifiutarsi di accettare il vocabolario in voga fra i giornalisti quando si parla di sovranismo. Nessuno che sia definito oggi sovranista scampa a un’etichetta che nel dibattito politico pesa come uno stimma, costretto a misurarsi con generalizzazioni qualunquiste e apposizioni ingombranti che non dovrebbero essere perdonate né alla grammatica né alla politica: xenofobo, nazionalista, reazionario, un accolito delle destre, che maldestramente del sovranismo sembrano intercettare le istanze. Maldestramente perché il sovranismo delle destre altro non è che un contraddittorio raccattare voti nei vuoti di rappresentanza lasciati dalle fazioni antagoniste. Eppure, è su questi presupposti che il sovranismo diventa lo spettro della barbarie a cui il buon cittadino sogni di scampare. Chi teme che le istanze di sovranità, spesso confuse con il populismo, possano essere un pericolo per la democrazia dovrebbe interrogarsi sul nesso che hanno con la post-democrazia del neoliberismo. In pochi sembrano infatti considerare la sovranità nella sua reale dimensione emancipativa nei confronti della tecnica e del mercato, in pochi si soffermano su cosa vi sia alla base delle tanto dileggiate rivendicazioni di sovranità, che, è sempre bene ricordare, “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Se la sovranità realmente ceduta è quella monetaria, tutto ciò che ne rimane è saldamente nelle mani del popolo nell’esercizio delle sue prerogative costituzionali. Tuttavia, se da un lato la sovranità ci appare oggi latente, dall’altro dimostra prepotentemente la sua pervasività, e questi giorni sono una dimostrazione di come essa sia in grado di venire a contatto con le nostre vite. Intanto soffriamo le semplificazioni giornalistiche, soffriamo nella presa di coscienza che la lingua sia una questione di potere e chi è padrone di essa è anche padrone della storia, avendo le chiavi per interpretarla a suo arbitrio. Questo nonostante non regga più nell’opinione pubblica la contrapposizione manichea tra sovranisti e buoni europeisti di maniera, in lotta contro gli egoismi sovrani – come se non fossero proprio gli europeisti di maniera a giustificare le pretese di ciascuno Stato dell’Unione, in lotta per perseguire il proprio egoistico tornaconto senza nasconderlo. Dove sia finita la buona solidarietà europea è ciò che si domanda qualcuno, ma forse è anche il caso di domandarsi dove mai sia stata. È innegabile che modernità ed Europa siano i pilastri della sovranità, che si atteggia come quel modo di essere della politica che ha il primato sui modi della pratica: ha il primato sull’etica, sull’economia e sul diritto. Nella sovranità si forgiano i concetti politici moderni e i conflitti storici. Chi storce il naso davanti alla parola sovranità, oggi con più disinvoltura, si fa beffa della dottrina dello Stato. Sovranità è volontà politica che pone la legge e delimitata al tempo stesso dal perimetro dell’ordinamento giuridico e istituzionale vigente: è soggetto collettivo oltre che strumento d’azione del corpo politico. Essa vive nell’anomia e al tempo stesso è orientata a produrre nomos – è un nomos che contiene anomia – e dalla sua tensione intrinseca ben si comprende come coincida con un ordine certo non immutabile, con un ordine che è possibile infrangere: non solo potere costituito, ma anche potere costituente. È grazie al contributo della teologia politica se comprendiamo che il potere costituente non è mai del tutto costituito: la sovranità è generata dal potere costituente ed è al tempo stesso in sé e fuori di sé. “È un concetto-limite che si affaccia sull’estremo”, prendo in prestito le parole di Carlo Galli in un prezioso libro Sovranità edito da Il Mulino e presentato lo scorso 21 maggio a Napoli, Palazzo Serra di Cassano, sede dell’Istituto Italiano degli Studi Filosofici. Per discutere di sovranità è infatti necessario rifuggire dai topoi nei quali siamo impaludati: essa è della politica sia il volto ordinato, che ha espressione nella cittadinanza sia quello “drammatico” della rivoluzione e della decisione. È con queste premesse che Galli ci consegna quella che potremmo ben definire una metacritica della critica al sovranismo. La sovranità come volontà della nazione non è necessariamente nazionalismo, ma autonomia di quella volontà, anche la più “pacifica e dialogante”, specularmente, “la sovranità come creazione della distinzione tra interno ed esterno non è necessariamente xenofobia, ma volontà di delimitare uno spazio su cui il soggetto politico abbia diretto potere e responsabilità”. Consequenzialmente diventa dunque la facoltà di dire l’ultima parola, di decidere sulla pace, sulle alleanze o sulle inimicizie e dunque sulla guerra: si tratta in ogni caso di prerogative inerenti al fatto che un soggetto politico possa rivendicare condizione di esistenza.
A fondamento del potere sovrano
La sovranità è tematica di convergenza della riflessione filosofico-politica moderna: si fa nascere convenzionalmente con i Trattati di Vestfalia, che nel 1648-1649 posero fine alla Guerra dei Trent’anni, ma a ben vedere concettualmente è esito di una lunga trasformazione della translatio imperii romana dal popolo all’imperatore e della potestas medievale del potere regio. Non è potere di uno solo, ma di tutti rappresentati in unità. Dai contributi imprescindibili di Lutero, Machiavelli e Bodin, la sovranità ha concreto sviluppo con il razionalismo moderno di Hobbes nel Leviatano (1651), nel quale diventa l’artificio adoperato dagli uomini per permettere l’uscita dallo stato di natura. Gli uomini diventano in questo modo coautori di un soggetto sovrano che ne rappresenta le istanze, che ne fa le veci. Per Hegel, in Filosofia del diritto (1821) la sovranità diventa, invece, mediazione dell’intera società considerata in se stessa e non risultante dai singoli individui: in essa è condensata la legge, il potere, ma anche la libertà. “È idealità di ogni potestà particolare. Lo stato di Hegel è il moderno stato costituzionale pensato con logiche non individualistiche e la nozione di sovranità è la chiave di tale pensiero. In questa interpretazione teologico-politica della sovranità il soggetto non si crede l’origine dello stato, pur essendone essenziale articolazione” con le parole di Galli. Per Marx la sovranità è alienazione politica che si palesa con la trasformazione dell’uomo in cittadino, ciò è risultante da un’altra alienazione che è la reificazione dell’uomo stretto nella morsa dei processi produttivi. Nel corso del Novecento il concetto di sovranità permane con l’approssimarsi della crisi della forma Stato e il collasso delle distinzioni fra Stato, società e individuo, condensandosi nella riflessione sulla massima disconnessione fra volontà, diritto e utile, norma ed eccezione. A riguardo non possiamo non pensare a Schmitt, secondo cui il sovrano è colui che decide sul caso d’eccezione “può essere un dittatore che crea un ordine nuovo attraverso la dittatura sovrana oppure il potere costituente del popolo rivoluzionario”. “La decisione da un lato trae forza dal conflitto dall’altra come coazione alla creazione di forma giuridica, a cui la politica moderna non si può sottrarre, ma in cui la politica non può essere racchiusa”. In Teologia politica (1922) Schmitt ci mostra l’esistenza di uno spazio, il “caso d’eccezione”, “che è una lacuna originaria interna all’ordine”; e che il sovrano che su quella lacuna decide può essere chiunque e ovunque”. Stiamo richiamando sempre Galli: “La sovranità, in quanto decisione, è il lato oscuro, non razionale della politica e ha una dimensione teologico-politica perché è un ‘miracolo’, è un’origine che a sua volta non ha né origine né fondamento e che quindi non si spiega razionalmente, ma a differenza del miracolo in senso tradizionale, la decisione non infrange un ordine preesistente, e anzi, agisce nel moderno nulla-di-ordine, per crearne uno ex novo. Il nulla-di-ordine, la mancanza intrinseca di giuridicità nel sociale è appunto il politico, il disordine originario, che la sovranità non può veramente neutralizzare e ordinare. Che la politica non sia del tutto giuridificabile è una realtà di cui, i liberali, i giuspositivisti, i liberal democratici, sono ignari, perché sviluppano solo il lato ordinativo della modernità e ignorano che il diritto contiene il non diritto, l’anomia, come propria origine”. In Agamben, infine, Homo sacer (1995), la decisione ha un nesso inscindibile con la biopolitica. È nella modernità che il potere sovrano si afferma come biopolitica: la vita nella sua pretesa di estensione nella complessità non può non essere ricondotta alla “nuda vita” dell’uomo uccidibile. La stessa nuda vita, termine benjaminiano, nella quale coabitano l’uomo e l’animale è la verità nella quale si esprime l’opera sovrana, nella quale si compie. Il sovrano, colui al quale appartiene il potere sul caso d’eccezione decide chi debba vivere e chi morire; si palesa dunque il lato estremo della sovranità, quella che si carica di teologia, che è affine alle questioni ultime della teologia: all’origine e alla fine della vita. Con le parole di Agamben: “Sacra, cioè uccidibile e sacrificabile è originariamente la vita nel bando sovrano e la produzione della nuda vita è, in questo senso, la prestazione originaria della sovranità. La sacertà della vita, che si vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano come un diritto umano in ogni senso fondamentale, esprime, in origine proprio la soggezione della vita a un potere di morte, la sua irreparabile esposizione nella relazione di abbandono. Qui l’analogia strutturale fra eccezione sovrana e sacratio mostra tutto il suo senso. Ai due limiti estremi dell’ordinamento, sovrano e homo sacer presentano due figure simmetriche, che hanno la stessa struttura e sono correlate, nel senso che sovrano è colui rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani. […] Sacra la vita è solo in quanto è presa nell’eccezione sovrana”.
Pericoli per la sovranità al tempo del suo compimento ordinato
Gli attacchi alla sovranità oggi, al tempo della sovranità democratica del neocostituzionalismo, che è compimento di essa e allo stesso modo la sua limitazione, non tengono conto di ciò che essa sottende. Le rivendicazioni di sovranità sono permeate, infatti, da una forte istanza politica e quindi è più che mai errato associarle al qualunquismo o all’antipolitica. Se mai è evidente che sono il sovranismo e il populismo a stare insieme, costituendo un eterogeneo movimento di reazione contro un’economia che sembra remare contro i bisogni della società e che può innescare crisi. Populismo e sovranismo sono quindi la voce degli esclusi, di coloro che non credono più in un paradigma economico che ha esaurito la spinta. Ci si potrebbe domandare il perché della percezione negativa del populismo – oltre che del sovranismo – considerata la sua vicinanza ai principi democratici. Il populismo, pur essendo un guscio vuoto che può essere riempito con il senso di qualsiasi cosa venga versata al suo interno – Taggart a riguardo sottolinea come “il populismo abbia una natura essenzialmente camaleontica, e questo comporta che assuma sempre le tonalità dell’ambiente nel quale fa la sua comparsa” – è legato indissolubilmente al referente popolo, nella sua valenza semanticamente ambigua, ma non certo negativa. Pensiamo all’italiano o al francese popolo e peuple, sono parole che indicano al tempo stesso l’intero e la parte o al terzo significato espresso dal termine tedesco das Volk, del popolo in relazione a una patria, a una nazione che vuole innalzarsi a comunità politica. Sovranità è, invece, condizione di esistenza nel mondo globalizzato, una rivendicazione dell’io politico in grado, al tempo stesso di soddisfare le esigenze protettive dell’individuo, sempre maggiormente impoverito del suo spazio di espressione democratica. Laddove proliferano i governi tecnici o di larghe intese, scompare tra i decimali di sforamento delle regole dell’euro, lo stato sociale, la democrazia, la sovranità: scema lo stesso spazio del politico che è stato il terreno nel quale il cittadino ha maturato quelle conquiste sociali di emancipazione che sono alla base dell’affermazione di una collettiva identità culturale. Questo all’interno di uno stato sociale scomparso, garante primariamente di un diritto al lavoro che è stato motivo di emancipazione dal ricatto e dalla subalternità. Il ritorno ad una prospettiva sovrana permetterebbe, infatti, al soggetto di svestirsi dell’incertezza dello status di consumatore e di essere valorizzato come singolo, nella sua dimensione di cittadino. Il dato di fatto, al quale sembriamo assistere assuefatti e sconsolati, è che ogni governo politico sembra trarre legittimazione dai mercati prima che dal popolo. La rivendicazione di sovranità, che tanto divide il dibattito politico contemporaneo, non è tuttavia solo il ripiegamento dell’individuo all’interno della sfera statuale, la risposta futuribile alle insicurezze della volatilità del mercato e del suo imperio; se da un lato la richiesta di sovranità odierna appare superficiale, disomogenea, disorganizzata sul piano politico, dall’altro sembra almeno poter assicurare un futuro, un’alternativa all’Europa a trazione ordoliberale dominata dai mercati. Questo e non altro è il segno da dare alle rivendicazioni interne di sovranità. Prendendo in prestito ancora le parole di Galli: “il sovranismo implica un giudizio di fallimento sul progetto europeo e sul vigente paradigma economico, è richiesta di una politica che non sia soltanto calcolo del Pil o dei decimali di sforamento delle regole dell’euro. Di una politica che sia finalmente un agire e non un lasciarsi agire dalla deriva entropica della Ue; che sia movimento e non impaludamento”. E ancora: “In ogni caso, l’ordoliberalismo fino ai primi anni del dopoguerra ha stabilizzato la Germania, ma oggi attraverso l’euro destabilizza le società europee e i sistemi politici europei, e istituisce confini – gli spread – ancora più impervi di quelli tradizionali. Così l’Unione Europea è in una ‘situazione intermedia’; l’euro ha effetti sovrani ma non è propriamente sovrano; gli stati hanno responsabilità sovrane ma non sono propriamente sovrani; il nomos, l’euro, produce anomia, ma non perché esprima sovranamente l’esistenza di un corpo politico reale con le sue contraddizioni interne, ma perché è l’esito di patti che hanno lasciato intatti i rapporti di potere fra i contraenti (gli Stati). Le sconnessioni interne all’Europa sono dislivelli di potenza fra Stati più o meno residualmente sovrani, e certo non sono solo questioni economiche: sono, sia pure indirettamente, iperpolitiche, come hanno dimostrato le pressioni sull’Italia in occasione della legge finanziaria del 2018, non certo giustificate dalle grandezze economiche in gioco”. Scriveva Habermas nelle prime righe di un fortunato articolo, comparso per la prima volta nel 2001, nel contesto politico del Trattato di Nizza: “Vi è un curioso contrasto tra le aspettative e le istanze degli ‘europei della prima ora’, che con la fine della Seconda Guerra Mondiale si adoperarono subito per l’unità politica d’Europa, stendendone il progetto, e quelle di quanti, oggi, hanno il compito di proseguire il progetto avviato allora. Viene da chiedersi se questo cambio nel clima politico sia espressione di sano realismo – risultato di secoli di apprendimento – o segno piuttosto di una alquanto nociva codardia, quando non di puro e semplice disfattismo”. Pur schierandosi apertamente per un’Europa federale, Habermas ci appare più volte apertamente critico verso ciò che andava delineandosi visibilmente. L’Europa federale avrebbe dovuto essere l’argine al regime dominante mondiale del neoliberismo, eppure, sciupata questa prospettiva, lo scenario a cui assistiamo oggi è visibilmente diverso. All’ottimismo condiviso, nel processo di unificazione europea, si è sostituito oggi il sano realismo: la presa di coscienza che l’esportazione del modello ordoliberale tedesco – nel mare del neoliberismo – agli stati membri dell’UE mette in serio rischio la crescita di stati come il nostro, rendendo sempre più difficoltoso intervenire espansivamente per ridurre la disoccupazione o finanziare adeguatamente i settori vitali dell’ordinamento affinché sia garantito lo stato di diritto. Questo mentre l’Europa, invece di valorizzare la dimensione sociale, apre il campo alla lotta, che l’europeismo di comodo non riesce più a nascondere, per preservare il surplus di prodotto sociale che permetta il mantenimento di uno standard minimo di prestazioni di Welfare minacciate dall’economia globalizzata. Si tratta, tuttavia, di un gioco vincente solo per chi si trova in una posizione di strutturale vantaggio competitivo nei confronti dei satelliti affini: si parla dell’Europa tedesca. Un ritorno alla sovranità delle nazioni può sicuramente spaventare, ma ripristinare il concetto pieno di sovranità altro non vuol dire che imporre il primato della politica che sembra scomparire dall’agenda delle èlites europee. Un’Europa dei popoli è da considerarsi impossibile, conferma Galli, senza la spinta propulsiva di un potere costituente “che implicherebbe la loro unificazione in un unico popolo e in un’unica struttura politica (per quanto federale), con la scomparsa o la relativizzazione delle precedenti sovranità statali”. All’Europa manca una politica fiscale comune, eppure, ciò non ha impedito che si forzasse la mano sull’unificazione monetaria, ormai palesemente un macigno che pesa sulle nostre teste, che ci espone al giogo dei mercati finanziari. Rinunciare alla prospettiva sovrana, al momento della decisione, equivale ad ignorare che gli spazi politici siano regolatori del diritto e dell’economia. La sovranità, che oggi raccoglie istanze politiche, è democrazia: la stessa che oggi sembra divenuta un problema, che espone alle tribolazioni dello spread mettendo sotto scacco i governi. Non dimentichiamo che la democrazia nasce e si sviluppa nel mondo moderno come democrazia nazionale: e a riguardo ha facile gioco Schmitt a ricordare, in Dottrina della costituzione (1984), che la Rivoluzione francese, nonostante le sue idee di umanità e fratellanza universale, “presupponeva la nazione francese come grandezza storicamente data”. E certo non lo fa per renderci un’interpretazione etnica. In ogni caso, manca attualmente un serio dibattito attorno alla sovranità, che nell’immaginario collettivo diventa un potere scomodo, un potere secondo i suoi critici mostruosamente arbitrario e disumano. Trattasi, ovviamente, di aggettivazioni che privano la sovranità del suo spessore storico e politico, che non fanno riferimento al suo compimento ordinato nelle costituzioni rigide. Sovranità che altro non è, citando ancora Galli che “il modo nel quale il corpo politico si manifesta e s’impone di esistere agendo secondo i propri fini”. Sovranità è il recupero della coscienza di uno spazio politico che abbia in sé soggettività, che sia espressione di identità collettiva.
Bibliografia essenziale
- G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995.
- U. Beck, Europa tedesca, trad. it. di M. Sampaolo Laterza Roma-Bari 2013.
- T. Fazi – W. Mitchell, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Milano 2018.
- C. Galli, Spazi politici. L’età moderna e l’età globale, Il Mulino, Bologna 2001.
- C. Galli, Sovranità, Il Mulino, Bologna 2019.
- J. Habermas, Una Costituzione per l’Europa?, Castelvecchi, Roma 2017.
- G. Preterossi, Ciò che resta della democrazia, Laterza, Roma-Bari 2015.
- A. Somma, Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale, DeriveApprodi, Roma 2018.