Un viaggio insidioso nel teatro
Che voglia che avevo, amici miei, che desidero di respirare di nuovo il profumo del legno e del velluto, di ascoltare ancora il vocio confuso che diventa silenzio quando si spengono le luci e il sipario si alza. Ieri sono tornato in teatro, nell’ambito della XIII edizione del festival del teatro di Salerno ed ho assistito alla prima: un’opera di Patrick Quintal dal titolo “Kraken”, messa in scena dalla Compagnia del Teatro dei Dioscuri di Campagna. Non conoscevo l’autore e neanche l’opera, cosa che ha fatto sì che mi ci accostassi con grande curiosità. Ciò che si nota immediatamente è la scenografia volutamente scarna ed essenziale, qualche drappo, pochi attrezzi di scena e nient’altro a distogliere l’attenzione del pubblico dagli attori, ai quali è demandato il compito, invero non semplice, di riempire gli spazi lasciati vuoti, con una recitazione efficace e senza pause. La tematica, di per sé già vista, ha il merito di essere trattata con originalità, incarnandosi in simbolismi e significati, che si dipanano durante la narrazione fino a stravolgere i presupposti iniziali. L’eterna lotta tra il bene (o ciò che consideriamo tale) ed il male, inteso come dolore esistenziale, si racconta, trasfigurandosi nelle vicende degli unici tre personaggi in scena: il Re Isidoro, interpretato da Emiliano Piemonte, uomo superbo, tronfio e vanaglorioso, la sua valletta Basilia, interpretata da Azzurra Liliano, invaghita di Isidoro fino a venerarlo e il Kraken, messo in scena da Antonio Caponigro, personaggio sfuggente e ambiguo, che ammanta i suoi gesti di sinistra sensualità. Non c’è e, a mio parere non deve esserci, una trama ricca e articolata, perché ciò che avviene sul palcoscenico fornisce soltanto una traccia, che lo spettatore è chiamato ad interiorizzare e metabolizzare, per essere in grado di restituire agli attori una partecipazione “ragionata” che passa attraverso la presa di coscienza che quello che viene raccontato altro non è che l’essenza stessa dell’esistenza di ognuno di noi. Il Kraken approda con la sua modesta barchetta sulle spiagge del regno, mentre Isidoro, il Re, è afflitto da una malattia che potrebbe condurlo a morte, nonostante le cure dei medici più eminenti e le amorevoli attenzioni dell’innamoratissima Basilia. Grazie a pratiche misteriose, il Kraken attira su di sé i mali di tutti i sudditi del regno, donando loro una pace che, alla fine, si rivelerà la loro rovina. Con la complicità di Basilia, il Kraken approderà a corte e vincendo la ringhiosa diffidenza di Isidoro, lo guarirà dalla sua malattia, che non è soltanto un malessere fisico, ma un dolore di vivere, profondo e radicato, originato da un episodio oscuro che lo aveva reso un eroe decantato dal popolo, ma che, allo stesso tempo, gli aveva dato la misura della pochezza del suo essere. Non vi rivelerò il resto della trama, perché quest’opera va vista ed interiorizzata, elaborandola secondo la propria sensibilità, tuttavia, esorto a non dare nulla per scontato, vi inoltrerete nella terra di nessuno, in quello sconfinato territorio inesplorato, che altro non è che il “voi stessi” con cui ancora non avete fatto i conti. Che vi piaccia o no, quest’opera vi costringerà ad intraprendere un viaggio su un terreno insidioso, che potrebbe condurvi a rivedere certezze che credevate ormai consolidate. È il caso di Basilia, che appare in principio vacua e leggera, che diventerà sentinella consapevole della ragionevolezza del bene, è il caso di Isidoro, accecato dalla superbia, che si ritroverà a fare i conti con il nulla reale della sua esistenza, è infine il caso del Kraken, in principio foriero di pace, che diventerà sentina infetta del male oscuro di vivere. Una nota particolare meritano i tre interpreti, che hanno messo in scena il lavoro, che sono stati capaci di realizzare l’alchimia, non del racconto o della recitazione, ma dell’incarnazione, dell’identificazione fisica con il personaggio: Azzurra, Emiliano e Antonio si sono trasfigurati, diventando altro da sé o, più probabilmente, una parte di se stessi che ancora non conoscevano. Ripeto: non conosco l’autore, non ho mai letto o visto nulla di suo, ma mi piace pensare che è esattamente così che avrebbe voluto vedere rappresentata la sua opera. Per quanto mi riguarda, infine, anch’io mi sono impantanato nella mia personale terra di nessuno, riscoprendomi, goffo nanetto, al cospetto del mio io inconoscibile e, con ogni probabilità, inesprimibile. Potenza del teatro, amici miei, di quello vero, però.