“Non voglio scrivere né essere scritto”. Su Tommaso Landolfi
Terribilmente amara è la sorte di colui che, per incoscienza o ipovedenza culturale altrui, viene considerato inferiore rispetto al suo reale valore: valore che, laddove presente, viene riconosciuto solo da chi verrà molto tempo dopo, poiché (ci si augura) sarà in grado di porre le giuste attenzioni nei giusti punti, osservando il tutto da una posizione che la lontananza e il tempo hanno reso privilegiata e strategica. Purtroppo, nonostante gli sforzi e la buona volontà, per il nostro è oramai troppo tardi: la morte non gli ha permesso di godere del riconoscimento che tanto gli sarebbe spettato. E così si perderà le pagine di bibliografia a lui interamente dedicata, non potrà assistere ai convegni e alle conferenze tese allo svisceramento dell’opera sua, non si gusterà gli eventi commemorativi organizzati, magari, dal sindaco del suo comune di nascita o da qualche intraprendente assessore alla cultura che ha deciso di “rivalutare e riqualificare i luoghi in cui è vissuto il nostro tanto amato scrittore x” (il cui rapporto con la suddetta cittadina, per la cronaca, si rivela essere, nella maggior parte dei casi, più ostile che pacifico: altrimenti, come si spiegherebbe la sua fuga dal paesello?). Tuttavia, accantonando per un attimo questa sprezzante ironia, mi sembra più che doveroso riconoscere ai nostri “riqualificatori artistici” più di un merito. Perché, se vogliamo, è esattamente grazie a loro che oggi si parla ancora (e in un determinato modo) dello scrittore x, del pittore y e dello scultore z: perché, è il caso di dirlo, fosse stato per i loro contemporanei probabilmente si sarebbe persa gran parte dell’arte di cui oggi ci è possibile godere ed usufruire. E i nomi ascrivibili a questo triste albo, si sa, sono molti e forse più di quelli che oggi siamo in grado di elencare. Ma si dà il caso che per questa volta mi interessi soffermarmi su uno in particolare, un capofila di questa lunga lista che ha ottenuto (o forse non ancora totalmente) il riconoscimento che meritava (e di cui, sicuramente, non aveva bisogno). E sto parlando di un certo Tommaso Landolfi. E partirei subito parlando di una delle particolarità che caratterizza l’autore Tommaso Landolfi, riguardante ciò che solitamente, nelle scuole e nelle accademie, si tende a dare per scontato ma che molto spesso (non sempre!!) può rappresentare un’ottima chiave di volta per decifrare enigmi e sciogliere possibili dubbi. Più di una volta, infatti,ci si dovrebbe chiedere: “Ma…questo nostro caro autore, che genere di esistenza ha condotto?” anche se, lo ripetiamo, risponderead una tale domanda, non sempre può aiutarci nelle indagini. Così come, non sempre, può essere semplice rispondere alla suddettadomanda. Soprattutto se si ha davanti una personalità come quella di Landolfi. Carlo Bo, eminente critico letterario e suo “amico” (se, avendo a che fare con Landolfi, ci è lecito osare usare una parola del genere) ha sostenuto che “forse, un giorno, uno studioso saprà raccontare la vita di Tommaso Landolfi, cosa che per chi l’ha conosciuto e frequentato a lungo appare impossibile”. Continua, in seguito, dicendo che “non si tratta soltanto di difficoltà a reperire dati e situazioni: Landolfi con il suo comportamento poneva un veto, non rispondendo a domande che gli dovevano sembrare indiscrete e soprattutto avvolgendo la sua immagine in un velo di segreti e misteri”.
È innegabile, come detto prima, che molti artisti non godano della fama meritata. E ciò, solitamente avviene per una serie di circostanze e contingenze che riguardano molti elementi schierati in campo: sicuramente, possiamo individuare una “colpa” nell’ambiente culturale dell’epoca (mi riferisco a critici, giornalisti e tutti coloro facenti parte del sistema letterario artistico italiano); se volessimo essere più severi e drastici, potremmo anche addossare una fetta di colpa al pubblico, concedendogli tuttavia l’attenuante di un’immaturità letteraria che non gli ha permesso di comprendere a pieno il significato e il valore dell’opera che avevano davanti (e qui, inevitabilmente ci si riconduce ai “primi colpevoli”, i critici, i quali devono rendere maggiormente comprensibile e sviscerare i segreti del caso letterario in questione); infine, ultimo e non per importanza, è fondamentale citare anche l’autore stesso: nella sua paradossalità, talvolta capita che sia lo stesso autore a rifuggire la mondanità e le apparizioni radiofoniche, televisive, giornalistiche e così via. Difatti, aderendo totalmente a quell’ideale dello scrittore in vista, del protagonista del panorama culturale e letterario italiano (e magari internazionale, chi può saperlo…), probabilmente si sarebbe assistito ad una trasformazione del personaggio Landolfi che, così facendo, avrebbe senz’altro tradito il suo carattere, la sua personalità: insomma, se stesso. L’essere protagonista, infatti, avrebbe avuto come conseguenza una facoltà di adattamento che il suo spirito ripugnava, che lo avrebbe costretto a tuffarsi nella realtà, a declassarsi da protagonista della poesia a protagonista della cronaca. Un atto del genere sarebbe stato non solo impossibile ma neppure, è il caso di dirlo, ammissibile. Un destino, il suo, adeguato alle scelte compiute: e ci è difficile capire se la letteratura, sua e degli altri, abbia rappresentato un mezzo per nascondersi o, venendo meno a qualche aspetto della sua personalità, per mostrarsi in tutta la sua vanagloria. Dietro ogni scrittore, si sa, c’è un grande vanitoso. Ma al contempo, dietro ogni grande scrittore c’è anche un uomo piccolo, insicuro e impaurito, che vede nella letteratura l’unica arma per combattere l’opprimente realtà che lo circonda.
Dunque, ritornando all’unica testimonianza, peraltro fornitaci da un critico letterario (oltre che stretto conoscente dell’autore), abbiamo già avuto modo di inquadrare (molto da lontano e in maniera leggermente sfocata) un vero e proprio personaggio. E addurrei, come ulteriore dimostrazione e caratterizzazione della sua personalità, una rarissima, e forse unica, apparizione televisiva, tenutasi in occasione della vittoria del Premio Montefeltro del 1962. Nel filmato notiamo come, con sapientissima ironia e pungente sagacia, provochi, stuzzichi e irriti i giornalisti i quali, con ogni mezzo (e avvalendosi anche di personaggi in vista nel mondo culturale quali editori e critici), tentato di strappare anche una minima informazione o un misero pettegolezzo sul “misterioso” scrittore. Ma oltre a qualche perculata, riescono ad ottenere poco e nulla. Laddove invece, noi spettatori, siamo fortunati di poter godere di un reperto televisivo parecchio interessante: perché, effettivamente, con questo suo uso della presa in giro, del risolino ironico e della leggera e sfottente goliardia, noi riusciamo a rifinire maggiormente il ritratto (pur sempre sfumato e parziale) dell’uomo Landolfi. E, paradossalmente, la sincerità alla quale lo hanno spinto le insistenze dei giornalisti rappresenta per noi appassionati, oltre che un divertente siparietto comico, anche una vera e propria testimonianza concreta dell’indole landolfiana. Aggiungiamoci, inoltre, l’uso di una personale e particolare gestualità e di alcune sue determinate movenze che contribuiscono, anche qui, a caratterizzare e affrescare con maggiore chiarezza e simpatia i suoi modi di fare. Certo, è necessario accontentarsi: la presente, di fatto, è l’unica apparizione televisiva tramandataci. E medesimo discorso andrebbe fatto per le fotografie, alle quale, analogamente, si sottometteva malvolentieri (e, a questo proposito, particolarmente emblematica risulta essere la foto scattata a Urbino, in cui con la propria mano cerca di coprire l’obbiettivo della fotocamera intenta a catturare il suo volto). Possiamo dunque affermare di trovarci di fronte ad un uomo sfuggente, misterioso, deciso a coprirsi con il suo lungo e pesante mantello non appena ritenga di essere rimasto esposto troppo lungo agli sguardi e alle indiscrete attenzioni della gente. Un uomo fitto di misteri, amante delle maschere e delle mistificazioni. Un uomo praticamente indecifrabile, che si sbottona malvolentieri e che, come gran parte dei letterati, ritiene che le proprie opere parlino più e meglio di quanto sia capace di fare lui stesso. Ma anche qui, il lettore o studioso landolfiano non avrà, certamente, vita facile. Non solo a livello quantitativo, ma anche qualitativamente, i testi di Tommaso Landolfi sono molti, vari e ben articolati, pur essendo di breve o media lunghezza. Possediamo racconti, novelle, fiabe, poesie, testi teatrali, romanzi (pochi: uno o forse nessuno, difficile stabilirne con certezza il numero), diari, filastrocche, saggi, articoli di giornale, elzeviri: quando si ha di fronte una così grande vastità di materiale letterario risulta decisamente complicato porre dei punti di riferimento che siano validi per ogni sua produzione scritta. Non ci si stupisca, dunque, che un autore come Landolfi sia considerato difficile: si tratta di uno scrittore che mira continuamente a sabotare il lettore, a renderlo furioso, a non garantirgli neppure un attimo di pace, di meritata requie. Ma, soprattutto, è un autore che preferisce non schiudersi di fronte al proprio lettore, impedendogli qualsiasi avvicinamento. Ed è strano. Perché, in effetti, gli scrittori (molti di essi) mettono nero su bianco i propri pensieri, il proprio messaggio affinché vengano diffusi e siano in grado di raggiungere un pubblico il più vasto possibile: hanno qualcosa da dire e la vogliono far presente a tutti (o quasi); altri autori, invece, scrivono unicamente per se stessi, per sopravvivere: perché, in sostanza, non hanno grosse alternative. Non si curano della comprensione del lettore, non destinano la propria opera ad un gruppo d’individui in particolare: scrivono per scrivere (e non parlerei neppure di “puro amore per la scrittura”, rappresentando molto spesso, il processo di scrittura, un’incarnazione del dolore). A questo punto, posta la suddetta distinzione, ci verrebbe abbastanza semplice individuare a quale delle due fazioni possa, in un certo senso, appartenere Tommaso Landolfi. Il lettore di Landolfi, infatti, una volta penetrato nel suo mondo è costretto a perdersi. L’autore, nei confronti di chi legge la propria opera, sembrerebbe comportarsi come un maleducato padrone di casa (e non mi sorprenderei se la storiella che sto per raccontare si dovesse rivelare realmente accaduta): prima invita l’ospite nella sua villa e, una volta apertogli il pesante portone, una volta fattolo entrare, lo lascia totalmente abbandonato a se stesso. Certo, così facendo gli garantisce la possibilità di visitare l’antica dimora nella quale si trova: ma è tutto fioco, quasi buio e in più l’ospite non conosce per niente il luogo in cui si trova, non è in grado di orientarsi bene e, inevitabilmente, finirà per perdersi. Avrebbe bisogno di una guida, della conoscenza del padrone di casa il quale, tuttavia, non accenna a palesarsi. Anzi, attende, nell’ombra, in una stanza segreta posta nel piano più alto della casa da cui scruta ogni singolo ed esitante movimento del suo ignaro ospite: lo osserva esattamente come lo scienziato osserva i ratti nel labirinto, per vedere se riusciranno a raggiungere il pezzetto di formaggio. Esattamente come il padrone di casa, dunque, anche il Landolfi narratore si colloca in una zona liminare della narrazione, posta totalmente ai margini del racconto. È il surreale che lo muove, ovvero quella frangia dell’indeterminatezza che avvolge le cose, dislocandole e piegandole alle associazioni e alleanze più fantastiche e urtanti. Si viene a delineare, dunque, un mondo inquietante ed inquieto, privo di appigli, dove tutto ciò che ci sta intorno non ha nitidi e rassicuranti contorni ma irriconoscibili sembianze amorfe.
Pensiamo, di avere a che fare con oggetti, uomini e animali a noi noti o conosciuti: ci ritroviamo, invece, sperduti in un universo caoticamente complesso e mutevole. E d’altronde, Landolfi sa bene che quanto da lui descritto, pur sembrando lontano e appartenente ad un’altra realtà, in effetti non è niente di meno di ciò che, quotidianamente, si mastica, vive e respira. Si tratta, utilizzando un ossimoro, della cruda rappresentazione di una realtà derealizzata: attraverso un filtro trasfigurante, prendono piede le abominevoli descrizioni del mondo, dei suoi personaggi tristi, amareggiati e spacciati, delle sue atroci consapevolezze per cui non esiste nessuna via di scampo, se non, come estremo rimedio, un genosuicidio capace di liberarci dalla abominosa storia. E sui personaggi Landolfi lavora minuziosamente, con l’attenzione di un artigiano, rappresentandoli nella loro assoluta instabilità e precarietà: ogni personaggio, infatti, non ricopre nessun ruolo mimetico (d’altronde, chi dovrebbe imitare? Quale individuo potrebbe mai riconoscersi in lui?). In esso, invece, vengono messe in risalto le parti più oscure e dinamiche, la tendenza ad una condizione di massima apertura, e non alla sua eventuale definizione: la sua scomposizione, non il suo compimento. Basterebbe pensare al caso di Maria Giuseppa, protagonista dell’omonimo racconto del 1929. La donna, infatti, si presenta come la narratrice della propria storia, raccontata confusamente, alla rinfusa, quasi grottescamente. Comico e tragico, bello e brutto, amore e ribrezzo perdono nel racconto ogni determinazione, ogni valore reale ed etico. I contrari si mescolano. Si ha una dissoluzione della realtà, o meglio, una derealizzazione della realtà. Landolfi, in questo senso, si pone come eccezionale creatore di paradossi e scombinatore di trame. Ogni elemento fondantedella sua letteratura, rimanda ad un oltre, ad un’ulteriorità. Difatti, non può che appellarsi ad un mondo metafisico nel momento in cui scopre che il mondo presente e “reale” è immerso nella pura ambiguità. È un mondo aleatorio, aperto. E di conseguenza, la realtà non può essere mimeticamente rappresentabile, in quanto sfuggente, casuale, assurda. Così, il risultato di una tanto amara constatazione non può che essere una scrittura allegorica, una scrittura negativache non mira alla praticamente impossibile raffigurazione dell’oggetto, bensì alla sua sottrazione, smaterializzazione, sparizione. Nel cuore dei suoi racconti, l’unico vero protagonista è quel costante senso di vuoto, che toglie ogni logica e fondamento al mondo narrato, che sospende momentaneamente la verità, divenuta ormai una sciocca chimera di pezza. Ecco che l’opera di Landolfi si mostra nella sua vera essenza: assume le sembianze di un luogo nel quale ci si può unicamente smarrire (esattamente come gli ospiti della sua villa), abbandonando l’idea di potervi trovare, al suo interno, la felice soluzione ai propri problemi o il senso di quanto successo: il caso e l’assurdo, con sempre maggiore prepotenza, reggono le fila di questo folle mondo.