Pavese: un naufrago nel vizio assurdo dell’esistenza

Cesare Pavese è stato il primo scrittore italiano che ho letto per intero. Avevo sedici anni quando ho scoperto i suoi libri.

Se c’è un autore che ha influenzato la mia formazione questo è sicuramente il grande Pavese.

Nei suoi romanzi e nelle sue poesie ho sempre trovato tutto quel faticoso mestiere di vivere con la sua esperienza degli affanni e quella sana contraddizione di riempire con la scrittura tutto il pieno di un drammatico vuoto esistenziale.

Pavese con il suo vizio assurdo della vita (come giustamente ha detto Davide Lajolo) ha sempre cercato una via d’uscita alla propria crisi esistenziale.

Soprattutto la sua poesia rappresenta il tentativo estremo di cercare una forma di comunicazione con gli altri.

Ma nonostante tutto per Cesare Pavese la vita resterà un mestiere non retribuito dal punto di vista esistenziale.

Il 27 agosto 1950 in una calda estate decise di licenziarsi in maniera definitiva dalla vita chiedendo a bassa voce di non fare troppi pettegolezzi. «Negli anni che ci separano da questa data – scrive Giacinto Spagnoletti nella Storia della letteratura del Novecento –  la sua vita è stata frugata in ogni senso, e con tutti i documenti a disposizione, dai primi passi alla maturità, dagli amori platonici all’ultima passione per l’attrice americana Constance Dowling, senza perdere di vista gli amici, la formazione letterario, le idee politiche».

Pavese si uccise al culmine del successo letterario, qualche mese prima del gesto estremo con La bella estate aveva vinto il Premio Strega.

Se si apre Il mestiere di vivere, che non è una storia di persone e di fatti, ma è il libro che racconta la storia di una vita interiore, subito si legge del disagio esistenziale di stare al mondo che Pavese avverte e evidenzia in ogni frammento del suo diario.

Con estrema lucidità lo scrittore prima e poi l’uomo annotano la loro tragedia personale che accade giorno per giorno e che culmina nel suicidio quel maledetto 27 agosto 1950.

«Ci si sveglia un mattino che è morta l’estate» si legge in una delle sue poesie più belle. A settanta anni dalla sua scomparsa Pavese continua a essere una voce nuova della nostra letteratura, come se tutto il suo dolore e la sua solitudine di scrittore e di uomo fossero sopravvissute alla sua morte e al Novecento.

Quell’estate del 1950 lo scrittore si spense con un flacone di barbiturici. Venne la morte si prese gli occhi e il corpo di Cesare Pavese. Ma la sua anima ancora vive nei suo grandi libri e nel Mestiere di vivere, il diario di uno scrittore e soprattutto di un uomo che ci ha insegnato a vedere il cuore che c’è nella tragedia.

Cesare Pavese è stato uno dei più problematici ed importanti scrittori del secondo Novecento. Sulla sua opera e sulla sua figura esistenziale è stato scritto e detto molto. La critica letteraria, all’unanimità, ha visto nell’autore de Il mestiere di vivere uno «scrittore in progresso» che affronta il problema morale della propria esistenza inventando un linguaggio storico ed etico, che è stato un punto di riferimento per due intere generazioni.

Pavese, scrittore che viaggia nel mito, e soprattutto autore impolitico che nella sua intera opera interpreta l’intreccio tra vita e morte non tralasciando l’elemento religioso.

Pavese, scrittore impolitico che si avvale del mito, nella sua scrittura e nel suo impegno culturale, per intraprendere un viaggio esistenziale con la sua opera: l’uomo e il poeta che non ha mai smesso di raccontarsi attraverso un preciso itinerario spirituale fatto di simboli, luoghi e miti che incontrano nel mito stesso di Omero la ragione esistenziale della tragedia del vivere.

Cesare Pavese resta un poeta e uno scrittore nell’inquieto tragico esistere. Oltre l’ideologia e oltre il valore stesso della storia.

Nella ricerca stilistica e contenutistica dello scrittore de I dialoghi con Leucò, l’archetipo di un’evocazione che richiama le immagini della memoria e della nostalgia nella letteratura, intesa come vita. Pavese non ha mai dato una lettura ideologica della sua opera né tanto meno un’interpretazione strutturalista del mito.

Nei romanzi e nelle poesie, lo scrittore cercava codici esistenziali distinti e distanti dai modelli interpretativi proposti da fuorvianti scuole di pensiero strutturaliste.

Pochi giorni prima di togliersi la vita, Pavese aveva annotato un pensiero breve a consuntivo doloroso della sua esistenza: «La mia parte pubblica l’ho fatta – ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti».

Soltanto se si legge la figura di Cesare Pavese alla luce della sua peculiare impoliticità si comprende la problematica esistenziale dell’uomo e dello scrittore. Pavese era troppo letterato e troppo tragico per potersi occupare delle ideologie.

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Nicola Vacca

Nato a Gioia del Colle nel 1963, laureato in giurisprudenza. È scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine culturali di quotidiani e riviste.
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