Salgado: la mano cordialmente tesa alla fragilità del mondo

Rincorro, inseguo, cerco il senso delle cose nelle libere ed intense fragranze sprigionate dalle parole, che come fiori spargono pennellate d’armonia e di luce, sul nero sudario nel quale è avvolto il mondo. Mi piace annusarle, toccarle, indugiare sulla loro avvincente seduzione, assistere al mistico sposalizio del significante col significato, per poi seguirne il ritmo festoso in un enunciato che denuncia un pensiero, fino a che, per citare Hrabal: “Quel pensiero si infiltra dentro di me così a lungo che mi sta non soltanto nel cuore e nel cervello, ma mi cola per le vene[1]”. Ed eccolo quel pensiero che mi pulsa dentro, quasi fosse un secondo cuore: “Quando (…) al compagno di viaggio terreno (…) con slancio cordiale gli si dà la mano per aiutarlo a non naufragare, il qui e l’ora del divenire sono oltrepassati e viene fondata un’opera che per il fatto stesso di andare oltre la mera individualità biologica è destinata a non perire mai più[2]” e come per  un  benevolo sortilegio aumentano le mie diottrie,  riesco a vedere le infinite potenzialità dell’uomo  racchiuse nel suo strumento per eccellenza: la mano, “potenzialità di ogni pieno[3]”, alfabetizzazione sensibile di un corpo altro dal suo, “funzione esosomatica[4]” attraverso la quale familiarizzare col mondo, prendendosene  cura, tendendogli cordialmente la mano [5] durante il suo costante perdersi negli abissi di una disumanità indicibile, cercando di ridestarlo, sbattendogli in faccia la sua brutalità.

Esattamente quel che ha fatto Salgado. La sua macchina fotografica ha funzionato proprio come una mano, perennemente tesa alle fragilità dell’uomo, nel nome di quella coscienza ribelle formatasi in Brasile, durante gli anni della dittatura del regime militare negli anni ‘60[6], colpevole di arresti, torture, sparizioni ed esili e che lo ha portato ad emigrare in Francia nel ’69, convinto di poter finalmente calpestare il suolo della patria della libertà e dei diritti civili garantiti.

Salgado, come direbbe Wenders, è molto più di un semplice fotografo: è un’anima incandescente di vita, con occhi intrisi di cieli liberi, immensi e luminosi della valle Rio Doce dove è nato, e la mente febbricitante di macrocontabilità, finanza pubblica ed economia politica, studi intrapresi a Vitòria negli anni ’60 ma terminati a Parigi, nella giovanile speranza di poter contribuire, un giorno, alla crescita economica del suo paese.

Purtroppo, sinistre nervature imbevute di malinconia deturpano il fulgore del suo sguardo. È opprimente, inconsolabile, drammaticamente reale la rabbia che arma la sua macchina fotografica davanti alle laceranti contraddizioni del mondo, schiavo di un becero profitto, larvato di false libertà, cieco, sordo e distante dal pianto di intere comunità impoverite dall’industrializzazione selvaggia e schiacciate dall’aridità della terra.

Oppure violate da guerre fratricide.  Stremate dalla violenza dei loro simili, fuggono ma nulla possono contro la fame e le malattie parallele, che si diffondono nei campi profughi.

Ma per quale assurdo motivo solcare l’oceano dell’irrazionale, imbellettato da odi razziali e lotte di potere, bulimico di sangue fraterno? Come è stato possibile che un giovanissimo uomo rinunciasse ad una promettente carriera nel mondo della finanza internazionale per denunciare le barbarie del secolo scorso, ricorrendo al linguaggio fotografico, il più potente che conoscesse, l’unico a non temere storpiature di senso in scabre traduzioni?

Ancora una volta faccio un passo indietro cedendo la parola ad Ernesto De Martino:

“Noi in quanto uomini dobbiamo costituirci qui e ora come datori di senso di un’epoca della storia umana, senza mai ricorrere al pigro presupposto che la storia questo senso lo abbia da sé indipendentemente da noi. Senza dubbio vi è una rosa di condizioni che delimita la possibilità dei conferimenti di senso, ma la storia rischia sempre di nuovo di perdere qualsiasi senso, malgrado tutte le condizioni affinché ne abbia uno[7]”.

Il senso estremo del lavoro di Salgado è stato urlarci in faccia la nostra medesima umanità, dove si prosciuga ogni oceano, si riduce ogni distanza e salta ogni limite. Non esiste sud. Non esiste nord. Grazie alle sue denunce per immagini ci ha scaraventato giù dalle nostre comode poltrone, ci ha ribaltato il piatto delle nostre ottuse sicurezze sulle nostre bocche ammutolite. Ci ha piantato nell’iride le conseguenze della nostra indifferenza, martoriatrice di sogni, speranze, futuro, senso, non di uomini qualunque di un paese qualunque, ma di noi stessi. nell’impossibilità di riconoscere quelle pene come nostre, nel rifiuto di vedere negli occhi di una donna che muore il riflesso di una nostra sorella, madre, cugina o amica.

“Basta un solo volto umano in sofferenza, non di duemila o di sei milioni di volti umani, per illuminare il senso preciso del nostro dovere (…) qualche volto concreto di persona che avete amato e avete visto soffrire, qualche bambina lacera e piangente che avete incontrato per via, una volta, il tal mese, il tal giorno della vostra vita: ricordate- non immaginate – questo episodio minimo, irrilevante, che altre volte vi è sembrato sentimentale, e di cui avete magari provato vergogna come di una debolezza; e se non vedete in quel volto tutti i volti, e il vostro stesso, o se avete bisogno ancora di Cristo per questo ricordo, o se addirittura non ricorderete nulla, o se direte che è segno di virilità non ricordare in questo momento, allora qualcuno oggi o domani, forse voi stessi premerà il bottone[8]”.

Salgado confessa di aver più volte deposto la macchina fotografica, sopraffatto dall’emozione. Dopo il Ruanda[9] non è più lo stesso. Si sente morto dentro. Ha visto troppo. Ha sentito troppo. Crollata è ogni fede. Ogni speranza. Più nessuno merita di vivere:

“Siamo animali molto feroci, siamo animali terribili noi umani sia qui in Europa, che in Africa, che in America Latina, dappertutto. Siamo di una violenza estrema. La nostra è una storia di guerre, è una storia senza fine, è una storia di repressioni, una storia folle…Molte volte ho riposto la macchina fotografica per piangere[10]”.

Cerca rifugio nella fazenda paterna, ma è ormai priva di quel paradiso lussureggiante di vegetazione che gli aveva insegnato la sinuosa danza delle luci con le ombre, sulle melodie chiassose dei ruscelli riflettenti i colori accesi del piumaggio degli uccelli.

Il legno di peroba è stato ingurgitato dall’espansionismo urbanistico e destinato alla produzione di carbone vegetale per l’industria siderurgica.

Lelìa cogliendo lo smarrimento del marito, lo convince a ripiantare la mata atlantica, ovvero la foresta pluviale atlantica su circa seicento ettari della loro proprietà. Salgado chiede aiuto a Renato Jesus, ingegnere famoso per il recupero di ecosistemi, che ha studiato lo stato del suolo della loro terra. Duecento specie diverse per ripristinare l’ecosistema. Nonostante le prime difficoltà la follia acquista valore nelle prime piantine alte appena settanta centimetri.” Avevamo una foresta baby[11]”.

Le piantine sono diventate solidi arbusti, la casa di tutti, come direbbe Salgado. Ogni cosa dipende dall’albero: la disponibilità di acqua nelle nostre vene, la possibilità di ossigeno nei nostri polmoni. La sfida di Lelìa e Sebastião è stata vinta, ricompensata dalla presenza di molti animali e perfino del giaguaro, il più grande della catena alimentare, la cui presenza vuol dire abbondanza di cibo per tutti.

Entusiasta Sebastiao decide di intraprendere una nuova testimonianza fotografica.

La bellezza della natura merita di esser raccontata. La sua lentezza, consolatrice di ogni inquietudine, merita ascolto. La sua ciclicità, balia rassicurante per le nostre ferite, merita di insegnarci a guarire della solitudine globale.  La sua fragilità, evocatrice di ogni fine, merita di indurci ad un game over critico e per una volta tanto senza compromessi.

Mettendosi in contatto con Conversation International di Washington, la più grande Ong di protezione ambientale che tutela le parti vergini del mondo, scopre che il 46 % del pianeta è incontaminato.

È il 2002 quando Salgado inizia a solcare l’oceano della superba bellezza del pianeta, realizzando, nel corso degli anni a seguire, trentadue reportage.

Intuisce di poter intitolare la sua esperienza Genesi. Infatti, buona parte degli scenari, immortalati nelle sue fotografie, sembrano esser rimasti incontaminati dal giorno della Creazione.

Ben presto la sua si rivela una felice intuizione. Nelle Galapagos, l’attenzione di Salgado è letteralmente rapita dalla zampa di un’iguana. Lì, nuda e inerte, sussurratrice  di familiari immagini, evocatrice di maglie metalliche di lontani guerrieri medievali con quelle scaglie argentate, pronte a vibrare nell’aria per proteggersi, ma chissà, magari pronta anche a protendersi verso un suo lontano parente,  stringergli la mano, agguantarla per istinto di sopravvivenza, come afferrare un bastone nella furia distruttrice di un fiume in piena, puntargli addosso i suoi occhi e chiedere pietà, ricordandogli che sono nati dalla medesima cellula.

Possiamo immaginare che Salgado abbia ricambiato la stretta dell’iguana e nel tentativo di comunicare a noi l’emozione di quel avvenimento intriso di emozioni contrastanti, ha portato la sua mostra in tutto il mondo, fedele alla muta promessa con cui si è congedato da quel lontano parente[12].

È così che la mostra fa tappa anche a Napoli, dove mi sono catapultata entusiasta e felice circa due anni fa. La mia prima volta al cospetto di un lavoro del celebre fotografo brasiliano.

Ogni immagine, ogni gioiosa incisione di luce sul nero pece delle nostre nefandezze, scandice i battiti ebbri di vita del mondo. Albatri urlatori della Saddle Island planano su albatri dal sopracciglio nero delle Isole Falkland intercettando sull’isola King George code di elefanti marini intenti a sfiorarsi, quasi a evocare l’incontro di amichevoli mani. E in lontananza il caratteristico soffio a V della balena franco australe nella penisola Valdes in Argentina, si allontana salutandoci cordialmente. Ma ora lascio che a parlare siano le immagini.


Grazie a quest’ultima esperienza Salgado recupera anche la fiducia nell’uomo:

“Tutti gli uomini e tutte le donne che ho incontrato non sono molto diversi da me. Abbiamo lo stesso bisogno di amore, di felicità, di piacere e di tutto quello che costituisce l’essenziale della vita… passando qualche settimana con popolazioni che vivono come noi vivevamo agli albori dell’umanità, ho avuto anche la prova che i grandi principi su cui si fonda il nostro mondo esistevano molto prima che la nostra società si organizzasse… non mi sono sentito superiore a questi esseri cosiddetti primitivi. Perciò non mi sono mai sentito uno straniero, quando ero con loro. Anzi ho scoperto persone come me e, sinceramente ho imparato più di quanto io abbia insegnato loro. Abbiamo avuto scambi culturali e mi sono fatto anche degli amici[13]”.

Uscendo quel giorno dal Pan ascoltai per puro caso questa canzone di Enzo Avitabile, di cui riporto parte del testo, e con la quale mi piace concludere questo articolo:

Castel Volturno, terra appicciat'
Abbi pietà di noi
Melit', terra appicciat'
Abbi pietà di noi
L'Italia, terra appicciat'
Abbi pietà di noi
L'Europa, terra appicciat'
Abbi pietà di noi
'O Munn', terra appicciat'
Abbi pietà di noi
L'Univers', terra appicciat'
Abbi pietà di noi

'A vit' è sacra e va rispettat'
'A vit' è sacra e va rispettat'
'A vit' è sacra e va rispettat'[14].

Note

[1] Cit. Bohumil Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa, Torino, Einaudi editore, 1968, p 4.

[2] Cit. Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi editore, 1977, p. 378.

[3] Cit. Carlo Sini- “La mano” - Lez. 4 - @immagini della filosofia.

[4] Ivi.

[5] Cfr. Elena Carmela Giacobbe, Il Tarantismo fra tradizioni e connessioni, Agropoli, LargoLibro Editore, 2017.

[6] Il 31 marzo 1964, il maresciallo Castelo Branco guida un colpo di stato, rovesciando il presidente del Brasile Joao Goulart. Il regime militare instaurato è durato fino all’elezione di Tancredo Neves, nel 1985. Il colpo di stato è sopraggiunto qualche anno dopo l’allineamento del regime cubano con l’Unione Sovietica, adducendo come pretesto la minaccia comunista. Il popolo si mobilitò in diversi gruppi di contestazione contro la dittatura e l’ingerenza degli Usa in America Latina.

[7] Cit. Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi editore, 1977, p. 450.

[8] Cit. Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, Einaudi editore, 1977, p. 525, il bottone cui fa riferimento è quello che è stato schiacciato nel momento dello sgancio delle bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki.

[9]  Il genocidio ruandese del 1994, che vide il massacro in soli cento giorni almeno 500000 persone. Le vittime furono prevalentemente di etnia Tutsi, anche se ben presto anche gli Hutu subirono violenze.

[10] Cit. Salgado in Wim Wenders, Juliano Ribeiro Salgado, Il Sale della terra, Francia, 2014.

[11] Ivi.

[12] Salgado nell’iguana vede un suo lontano parente.

[13] Cit. Sebastiao Salgado, Dalla mia Terra alla Terra, 2013.

[14] Cit. Enzo Avitabile, Abbi pietà di noi, Lotto infinito, 2016

Bibliografia

  • E. De Martino, 1977, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino.
  • E. C. Giacobbe, 2017, Il tarantismo fra tradizioni e connessioni, LargoLibro, Agropoli.
  • B. Hrabal, 1968, Una solitudine troppo rumorosa, Einaudi, Torino.
  • S. Salgado, 2013, Dalla mia terra alla Terra, Contrasto.

Discografia

E. Avitabile, 2016, Lotto Infinito.

Filmografia

W.S.J.R. Wenders, 2015, Il sale della terra.

Sitografia

https://www.youtube.com/watch?v=fcAy4yk67Mo

Carlo Sini - "La mano" - Lez. 4 - @Immagini della Filosofia - P. 1/3.

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Elena Carmela Giacobbe

Laureata in filosofia col massimo dei voti, autrice presso L'ArgoLibro Editore de "Il tarantismo fra tradizioni e connessioni" , sua tesi di laurea. Da alcuni anni si dedica alla fotografia.
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