Assurdo mnemonico. Intuizione del relativismo

Accade così, che mi siedo su uno strapiombo e osservo l’orizzonte. L’infinito ha ora un limite. Vasto è lo sguardo, confusa la sostanza, indifferente ogni mio agire. Penso, sono, ma non posso essere l’unità di misura delle cose, perché mi manca la parola se immagino d’essere un demiurgo. Otto minuti impiegano i raggi del sole per giungere da Lui a noi. È mezzogiorno e io sono illuminato da quelli emanati alle ore 11 e 52 minuti, eppure penso che sia tutto immediato, come davanti alle stelle a quattrocento anni luce dalla Terra che son vecchie e forse implose, ma sembrano luminose come sempre perché la relatività ci inganna.

Accade così che ogni intuizione è ricordo, è una realtà parallela, un mondo possibile attraversato, percepito, che poi ha preso un’altra strada, magari quella che non volevamo. E non c’è differenza tra ciò che era, ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere, in un luogo tutto è. Così, in solitudine, s’agita il mio mare e una lacrima pulisce la memoria. Quanta gioia sta nel fiore che non sa di esistere, quanto disumana è la necessità di appartenersi e ritrovarsi. E da un corpo ci si stacca e a un altro ci si unisce. Un giorno si compie un delitto, in un altro un processo, in un altro ancora si riceve il verdetto… ma ci si sveglia sempre diversi e non si è mai colpevoli o innocenti alla stessa maniera. È quasi inutile domandarsi perché così e non in un altro modo.

Ciò che è reale è razionale e viceversa, scrisse Hegel, magari contemplativo davanti alla catastrofe, padre di ogni cosa. Sapeva che da ogni annientamento sboccia la creazione. E accade che ora io sia un oggetto e la vastità sia me. Lo strapiombo è una fossa, la fossa è un giardino, il giardino è un Eden, l’Eden è una maledizione e la maledizione è la porta per la purificazione. Magari vedo la mia trasfigurazione e mi unisco alla mia sostanza, che contiene in sé tredici miliardi e ottocento milioni di anni di evoluzione delle particelle sprigionate dal taglio cesareo dell’Universo. E ora mi fermo, perché la mente non è pronta ad abbandonare questa vita, ancora no. Sono ancora figlio e non conosco il padre della mia catastrofe. Nudo e orfano me ne sto sullo strapiombo e lascio ancora commuovermi.

Il mio orologio segna mezzogiorno e otto minuti. Sono questi i raggi più caldi che il sole ha emanato nel suo mezzogiorno. E mentre l’ora solare mi riporta in me, qui, nell’anima, è ancora l’aurora e lei è così simile al tramonto. E un ricordo di chissà quanti secoli fa mi ha attraversato… assurdo appare questo pensiero, relative tutte le realtà. Domani sarà di nuovo mezzogiorno, forse domani il sole non sorgerà, forse domani non tramonterà. Dove andrò a cercare il padre della mia catastrofe?

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Martino Ciano

Amante della filosofia e della letteratura, autore. Laureato in Scienze storiche, giornalista e direttore responsabile della testata Digiesse News dell'emittente Radio Digiesse.
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