Critica della critica deleuziana
“Sono intelligenti, arguti, sensibili e reattivi: hanno lucidato il vecchio spirito commerciale con le ultime conquiste della psicologia” (Adorno, Minima moralia. Meditazione della vita offesa, 1951)
In un testo, estremamente inerziale e moralista, di uno psicoanalista italiano non si fa altro che tentare di codificare il desiderio facendone addirittura un catalogo da rivista modaiola, dove si immagina di trovare una serie di ritratti e di volti del desiderio. Si tratta del primo modo di indebolire il desiderio, ed in parte di falsificarlo, scambiando la piega di una forza desiderante per carenza. Bisognerebbe invece capire che una forza può essere piegata, piegata anche su se stessa, ma resta pur sempre una forza, che non manca di nulla e non si codifica, ma al massimo si attualizza.
Lo stesso autore, quando parla del desiderio, fa riferimento ad una fantomatica galleria di configurazioni, incanalandolo in un sistema di codifiche di cui vengono mostrate varie sfaccettature. Il tratto comune di queste rappresentazioni è che sono sempre mancanti e forse anche castranti – complessità di mancanze aggregate in gallerie di immagini: «Un altro ritratto ci attende quasi in fondo alla nostra galleria. È quello del desiderio amoroso. È bene che arrivi adesso, dopo il ritratto del desiderio sessuale. Se dovessi immaginare un quadro, un ritratto plastico di questa figura del desiderio, immaginerei il ritratto di una donna»1. Una tale citazione dimostra che non è necessario scrivere molte pagine per essere inerziali e poter addirittura ambire alla regressione più totale. Parlare del desiderio in questi termini è un po’ come parlare della cardiologia facendo riferimento a metodi di guarigione primitivi ed ormai inefficaci. Il desiderio come mancanza è qualcosa che esiste nel panorama della storia del desiderio, ma ha mostrato diverse problematiche, oltre che tratti fin troppo misticheggianti.
Il taglio mistico resta sicuramente il tratto tipico di questi teorici della mancanza: il desiderio come vuoto, come volontà verso un impossibile, il desiderio che brucia in se stesso. Ma nonostante l’inerzialità palese del testo è proprio in questo modo che si tenta di neutralizzare la lettura deleuziana, soprattutto per tutta la sua riflessione sul desiderio, un desiderio che non vuole più contemplare ritratti – come si potrebbe parlare di un ritratto del desiderio? Voler ritrarre il desiderio è scambiare il quadro finale di un artista per le forze che lo hanno composto e che non si esauriscono sulla tela. La tela rappresenta soltanto la parte di una processualità che va sempre oltre, per manifestarsi in chissà quale altra gestualità e che magari non ha nulla a che fare con la tela. Come si può dare con-figurazione del desiderio? In termini deleuziani sarebbe impossibile come il tentativo di formalizzare il potere: «Il potere è la strategia in quanto si differenzia dagli strati, è il diagramma in quanto si differenzia dall’archivio, è la microfisica poiché si differenzia dalla macrofisica o fisica molare»2. Un ritratto appartiene necessariamente all’ordine dei sistemi molari, mentre il desiderio appartiene al campo della microfisica. Il desiderio non ha nulla del ritratto, o se ha qualcosa del ritratto è nelle singolarità che si attualizzano nell’immagine, differenziandosi attraverso una cattura che le ri-attualizza grazie ad una linea del fuori (o punto di resistenza), che le ricombina in una molteplicità di sedimentazioni dove quelle singolarità con gli oggetti parziali vengono investiti dai flussi del desiderio. Pensare che possa esistere il ritratto di un desiderio sessuale, o di un desiderio amoroso e così via, sarebbe come pensare l’esistenza di un potere localizzato che, appartenendo ad una specifica classe, possa essere posseduto e gestito. Ma il potere non è mai isolato in una classe, il potere è sempre in relazione, il potere è tanto nel potere di plasmare quanto nel potere di essere plasmati [Pli].
Esiste una potenza reattiva del potere che in alcuni casi è potente quanto la potenza attiva: «Qui si consuma un tentativo di impiegare la forza per ostruire le sorgenti della forza»3. Ci vuole forza tanto nel versante attivo quanto nel versante reattivo che si contrappone alla sorgenti della forza, ma che resta pur sempre una forza, così come la volontà del nulla resta pur sempre volontà. Il desiderio, così come la forza per Nietzsche, può essere piegato, anche piegato contro se stesso, ma continua a non mancare di nulla e continua a non essere parziale o castrato. Credere che invece esista un desiderio sessuale e poi un desiderio di niente e poi il desiderio della madre, significa scambiare la piega del desiderio, la possibilità del desiderio di poter essere piegato, per la mancanza del desiderio – significa fare del desiderio un qualcosa che non è più relazione: «Non è più relazione con l’Altro, ma è desiderio che consuma se stesso [...] Essi vogliono l’oggetto impossibile da avere, l’oggetto irraggiungibile, l’oggetto degli oggetti, l’oggetto di un altro mondo»4. Chiaramente la psicanalisi capisce che il desiderio è sempre relazione e che il desiderio dell’oggetto impossibile è godimento e non più desiderio, ma dove va ad installare questa relazione? Nella triangolazione edipica, il desiderio della madre, il desiderio del padre, il desiderio dell’ambiente domestico, desiderio addomesticato. La psicanalisi dice che sicuramente il desiderio è relazione con l’altro, ma l’altro diventa l’antro familiare ed essendo desiderio della madre ha già nel cuore il germe della mancanza, la ferita della repressione e del senso di colpa, ma così che lavora la critica del ritratto.
Deleuze costruisce, assieme a Guattari, una lettura completamente diversa del desiderio, nella quale il desiderio non può mancare di nulla, è sempre produzione, produzione e relazione con qualsiasi cosa. Si tratta della costruzione di un desiderio spinoziano, anti-hegeliano, che non fa altro che montare macchine su macchine, costruire relazioni tra gli oggetti parziali, ricombinando le singolarità secondo disgiunzioni inclusive, impreviste, mai castranti e mai mancanti di nulla. Pensare che il desiderio possa essere mancante (asse psicanalitico) significa introdurre una fantomatica totalità a cui non riuscirebbe a pervenire, o verso cui sarebbe portato a non pervenire – significherebbe dire che la potenza non ha potenza per essere potenza, o che una forza non ha forza per essere forza – significa quindi fare una totale confusione tra la piega delle forze e la mancanza. Solamente nell’astrazione di un desiderio rimosso dal mondo si può immaginare un desiderio mancante, ma il desiderio non è mai mancante, così come una forza non è la non-forza. Una forza può essere piegata, così come il desiderio può essere piegato, ma non lo si può rendere mancante di nulla, dire – “Il desiderio è mancanza” significa dire che una forza è la non-forza, significa dire che A è non-A.
Si potrebbe dire che la repressione che la psicanalisi opera sul desiderio sia una repressione addizionale, volendo utilizzare una definizione di Marcuse5. La psicanalisi vuole trovare la castrazione, vuole trovare la mancanza e lo può fare proprio scambiando la piega delle forze per mancanza. Una mancanza che è sempre mancanza di una totalità e che fa del desiderio un qualcosa di incompleto, che ha bisogno della famiglia per codificarsi. Ma in cosa consiste questa codifica? Nell’indirizzare il desiderio verso la sola madre, o, nel migliore dei casi, verso la triangolazione edipica (quindi verso la colpa), oppure mortificarlo nel silenzio, nel tacere l’amore (altro effetto estremamente mistico della codifica). Tacere l’amore è proprio l’effetto mistico che serve prima della codifica, perché bisogna entrare nello scenario peccaminoso della parola. La parola è il peccato e quindi bisogna tacerla, auto-castrarsi in modo da economizzare anche sui tempi della seduta – “Al posto di farvi castrare dallo psicologo di turno, auto-castratevi e tacete l’amore e nel tacere l’amore auto-interpretatevi!”.
Codificare il desiderio significa proprio questo. Erigere la parte tagliata come tutto, ideologizzare nel migliore dei casi e reprimere, dare al desiderio un Padre, dargli un nome, curvarlo verso la famiglia, verso la triangolazione. Il desiderio edipizzato non fa altro che desiderare una famiglia, una famiglia per bene: immagine riflessa delle migliori pubblicità di una società narcotizzata dallo spettacolo. Ma anche se non dovesse avere una famiglia di partenza ne avrà almeno una di destinazione e se non dovesse averne neanche una di destinazione, avrebbe comunque quella dello studio psicanalitico. Avrebbe un Padre a pagamento capace di codificare il desiderio tramite la monetizzazione – “Avrai tanto più desiderio quanto più riuscirai a pagare, io sarò la famiglia che ti manca, io sarà il Padre con cui potrai tacere l’amore”. Una volta codificato è ovvio che il desiderio appaia come castrato e mancante: «Se il desiderio è rimosso, non è perché sia desiderio della madre, e della morte del padre; al contrario, diventa questo proprio perché è rimosso, non assume questa maschera che sotto la rimozione che gliela modella e gliela affibbia»6. Il desiderio ridotto al desiderio del loculo domestico non può che essere un desiderio destinato alla castrazione, il desiderio della madre come incesto, o il desiderio della morte del padre.
Per trovare uno spiraglio in questo miasma demoralizzante e strategicamente depressivo si deve andare in tutt’altra dimensione. Per ripristinare minimamente la dimensione del desiderio ci si deve rivolgere alla letteratura, e allora si vede che il senso di apertura verso il mondo è totalmente ritrovato: «Sembra che la stanza si scuota e vibri tutta… Il sangue e la materia di molte razze – neri, polinesiani, mongoli delle montagne, nomadi del deserto, levantini poliglotti, indios –, razze non ancora concepite e non ancora nate attraversano il corpo… Migrazioni, viaggi straordinari in deserti e giungle»7. Fortunatamente in molta letteratura il desiderio si mostra come desiderio di un mondo, anzi, di mondi, creazione di relazioni impreviste e di zone di indiscernibilità, ma soprattutto il desiderio non nega più nulla ed è sempre affermazione. Si trova persino al di fuori dell’organizzazione del corpo, al di fuori dell’organismo, come si potrebbe pensare che possa essere mancante? Al desiderio non serve nulla, neanche un organismo, al desiderio serve al massimo un Corpo senza organi che possa incontrare macchine desideranti.
Sicuramente si può scambiare e fraintendere una piega che si produce sulle forze e sul desiderio con un’operazione di codifica ben riuscita. Una volta triangolato nel loculo domestico o nello studio dell’analista si può mettere quel che resta del desiderio sotto il sigillo di un codice ed una volta codificato e confezionato lo si fa funzionare secondo i parametri della mancanza e della castrazione o, nel migliore dei casi, lo si può indirizzare verso il binarismo Mamma-Papà. Non è un caso che si richiami il ritratto plastico nel desiderio amoroso, ed è il ritratto di una donna, ma chissà perché poi? Meglio sarebbe concepirlo nella semplificazione di una condensazione dove ogni donna diventa la madre. Siamo sempre sotto il segno dell’auto-castrazione. Bisogna chiedersi perché invece non si potrebbe desiderare una muta di topi, oppure uno sciame di vespe, desiderare una tribù, una molteplicità, perché non si dovrebbe desiderare di essere un deserto? Perché non si può desiderare di essere attraversati da raggi solari, o da costellazioni? Desiderare di respirare nebulose cosmiche? Essere tutti i nomi della storia o una molteplicità di molecole? Il desiderio non ha necessariamente a che fare con persone: «È di palmare evidenza che il desiderio non ha per oggetto persone o cose, ma ambienti interi che attraversa, vibrazioni e flussi d’ogni natura che abbraccia introducendovi tagli, catture, desiderio sempre nomade e migrante»8. La grande inerzialità di tutto un versante della critica deleuziana si stempera nella volontà di portare in scena un desiderio unidimensionale, un desiderio ancora troppo umano, nonostante l’impossibilità di schiacciare il desiderio in una sola codificazione. Ovviamente il desiderio si territorializza, deve territorializzarsi e così come l’informalità del potere è sempre legata alla formalità del sapere, allo stesso modo il desiderio è anche desiderio di un territorio, ma costruisce il muro solo per sfondarlo, per deterritorializzarlo e per poi ricostruirlo nuovamente, così come fa per il linguaggio. Il desiderio passa anche attraverso il linguaggio, filtra attraverso le parole per poi decodificare e ricostituire nuove stratificazioni e sedimentazioni che vengono nuovamente scardinate dalla linea del Fuori, la terribile linea del fuori. Ma lo schiacciamento unidimensionale del desiderio sull’unità oppressiva di un ritratto, o sull’immagine della Madre è solo una parte della falsa critica.
Esiste poi tutto un altro versante della falsa critica sul desiderio che simula di leggere il desiderio in chiave deleuziana, ma lo fa dal punto di vista del rimprovero o della maturità. In questo caso l’enunciato critico assume il tono da uomo maturo che è già passato per la filosofia di Deleuze, che ha letto a fondo Deleuze (quasi sempre in un’età giovanile) e che ora si rende conto che la maggior parte delle cose che Deleuze dice sulla deterritorializzazione, sulla linea di fuga, sulla molecolarizzazione, etc. non sono altro posizioni ingenue o insostenibili. Questa critica-matura vuole ricordare (ma non si capisce poi a chi voglia ricordarlo) che per parlare noi abbiamo bisogno di un linguaggio ben codificato, che noi non vogliamo il deserto, ma vogliamo stare seduti comodi sul nostro divano di casa, seduti di fronte alla televisione, che noi non vogliamo l’irrespirabile, ma essere ben preservati e circondati dalle mura protettive di casa nostra. La critica-matura tende a minimizzare, dicendo che i vari contorcimenti di Deleuze e Guattari non sono altro che giochi di parole, spesso anche noiosi, ma comunque sterili dal punto di vista filosofico. Ma cosa ancora più grave è che dove questa critica-matura crede di capire, in realtà sta già indebolendo, dicendo che – “Sono anche cose interessanti, ma astratte, fantasiose e giovanili, inapplicabili. Si possono accettare in una fase infantile della crescita filosofica, ma il filosofo maturo sa della necessità del territorio”, parlano quasi come se per Deleuze la parola territorio fosse una parolaccia. La critica-matura vuole vedere, o forse riesce solamente a vedere, un Deleuze che è solo deterritorializzazione, che è solo via di fuga, che è solo flusso, manifestando in questa interpretazione la totale incapacità di comprendere un testo. Se si sapesse leggere il testo deleuziano non si troverebbe mai l’esaltazione positiva della deterritorializzazione. Anzi, leggere Deleuze in chiave positivo\negativo significa mettersi nella condizione di non capire una sola parola di quello che afferma Deleuze. In specie, nell’Anti-Edipo, non si fa altro che parlare di queste due polarizzazioni (molare\molecolare; territorializzazione\deterritorializzazione, etc.) e della necessità di tenerle sempre in tensione tra loro e dell’impossibilità di poter parlare di deterritorializzazione senza prima avere un territorio e viceversa. Ma come potrebbe la deterritorializzazione deterritorializzare se prima non ci fosse un territorio da poter deterritorializzare? Ecco perché la critica-matura è una critica di falsari almeno quanto la critica del ritratto. Falsificano una filosofia per poter muovere a quella filosofia delle obiezioni che in realtà sono già risolte nella filosofia stessa. Ma, se sono già risolte, non si capisce allora tale critica-matura contro cosa stia combattendo. Probabilmente non combatte proprio contro nulla, ma ha solo la necessità di ribadire l’ovvio. Così dalla critica del ritratto alla critica-matura si ha solo un cambio di poltrona – dalla poltrona dell’analista a quella dell’accademia. Ma quali sono i punti principali di una tale critica? Perché sicuramente si possono trovare degli enunciati portanti:
- Non si può vivere la deterritorializzazione perché l’uomo ha bisogno di un territorio;
- Deleuze è un fenomeno giovanile, una fase ribelle che poi deve essere superata – bisogna diventare maturi;
- Bisogna essere pratici – l’uomo vuole la sicurezza del muro, della casa, il corpo stesso è delimitato da una soglia protettiva;
- L’uomo non vuole solo la sicurezza, ma vuole anche una casa confortevole e una caverna climatizzata.
Fuor di metafora, nella critica-matura c’è la volontà diretta e malcelata di assicurarsi alla poltrona accademica, territorializzarsi nella postazione universitaria per difenderla con un atteggiamento paragonabile all’occupazione militare (questa è la grande territorializzazione che questi intellettuali sognano, militarismo poltronale e accademico). Ma la cosa più paradossale è che tutto questo è vero, ciò che essi dicono è vero; nel senso che è veramente una parte importante e fondamentale quella di recuperare un territorio, o di iscriversi in un codice. Solo che se si sapesse leggere ci si renderebbe conto che sono cose già dette e dette anche molto meglio dall’autore stesso: «Anche quelli che sanno meglio disinnestarsi, disinserirsi, rientrano in connessioni di macchine desideranti che riformano terre anguste. […] Insomma, non c’è deterritorializzazione dei flussi di desiderio schizofrenico che non proceda di pari passo con riterritorializzazioni globali o locali, che riformano sempre zone di rappresentazione. […] Non si può mai cogliere la deterritorializzazione in se stessa; non se ne colgono che gli indici rispetto alle rappresentazioni territoriali»9. Bisogna chiedersi allora perché ribadire la necessità del territorio quando la filosofia di Deleuze lo presuppone, perché fare l’apologia della territorializzazione quando è presupposta dalla stessa filosofia deleuziana?
La falsa critica mostra, anche in questo caso, tutta la sua inerzialità, nella pretesa di infantilizzare Deleuze muovendogli delle obiezioni che sono già contenute nella sua filosofia. Anche in questo caso si introduce una mancanza, ma una mancanza che si vuole trovare nel testo, proprio quel testo che in realtà contiene tutti gli anticorpi e le precauzioni necessarie: «Non c’è formazione molecolare che non sia di per sé investimento di formazione molare. Non esistono macchine desideranti al di fuori delle macchine sociali che esse formano su grande scala; né macchine sociali senza quelle desideranti che le popolano su scala ridotta»10.
Di fronte ad una tale evidenza la critica-matura risulta inerziale quanto la critica del ritratto, la quale invece nega completamente l’esistenza di un desiderio spinoziano e continua a codificarlo secondo il negativo hegeliano della mancanza o del senso di colpa. La critica-matura, invece, vuole mostrarsi più matura della filosofia deleuziana, intesa come un giovanilismo irrequieto, ma che esiste solo nelle loro teste vuote. Se la critica del ritratto fa finta che Deleuze non sia mai esistito, la critica-matura lo tratta con presunzione e superiorità, lo edipizza prima per poi dissolverlo dialetticamente in un falso superamento. Ma entrambe probabilmente concordano sul fatto che la filosofia deleuziana sia una filosofia inutile, concependo l’utile come una forma di utilità che sia la loro specifica utilità, la loro piccola utilità quotidiana. Così, nella prospettiva di ciò che per loro è massimamente utile, secondo i loro piccoli enunciati professorali e secondo i loro piccoli quadri di visibilità, essi mostrano tutta la loro bestialità cattedratica, mai troppo sazia del ritornello autocelebrativo, dimostrando di essere perfettamente in grado di tessere la mimesi pseudo-estetica di loro stessi come unica forma di rappresentazione culturale possibile ed auspicabile.
Bisognerebbe ricordare che per Deleuze la filosofia era un qualcosa di pratico e di concreto, ma il pratico non deve coincidere necessariamente con una pubblica utilità, o con la piccola utilità accademica, con la grande e nello stesso tempo piccola e misera prospettiva degli uomini di cultura: «Ma si fraintendono i grandi uomini, se li si considera secondo la miserabile prospettiva di una pubblica utilità. Che non si sappia trarre da loro alcun vantaggio, è un fatto di per sé connesso alla grandezza…»11.
Note
1 M. Recalcati, Ritratti del desiderio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 134.
2 G. Deleuze, Il potere. Corso su Michel Foucault (1985-1986) /2, trad. it. di M. Benenti e M. Caravà, Ombre corte, Verona 2018, p. 115.
3 F. Nietzsche, Genealogia della morale. Uno scritto polemico, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 2000, p. 111.
4 M. Recalcati, Ritratti del desiderio, op. cit., pp. 76-77.
5 Marcuse utilizza Repressione addizionale per differenziare la plusrepressione capitalistica dalla “normale” repressione di cui parla Freud.
6 G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 129.
7 W. S. Burroughs, Pasto nudo, trad. it. di F. Cavagnoli, Adelphi, Milano 2018, p. 118.
8 G. Deleuze e F. Guattari, L’anti-edipo. Capitalismo e schizofrenia, op. cit., p. 332.
9 Ivi, pp. 360-361.
10 Ivi, p. 389.
11 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli. Ovvero come si filosofa col martello, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 2000, p. 129.