Epilogo. Estratto dalla nuova edizione de “La dimensione del desiderio” di Marco Di Napoli

Quando ho scritto questo libro sul desiderio* non avevo ancora in mente un disegno chiaro, che si sarebbe invece sviluppato nel tempo: che il desiderio potesse funzionare come una potenza in grado di far saltare la ragione, o meglio, un certo uso della ragione che potesse risultare vincolante in vista di una possibile configurazione futura del tema del divenire. Tale tema, come ho capito nei miei studi successivi, si è dimostrato essere il vero demone critico del mio nucleo desiderante, il solo sbocco possibile per una filosofia dell’impossibile.

Come spesso capita, anche se non ne siamo consapevoli, quando si lavora su qualcosa si innescano dei procedimenti sotterranei che aprono dei canali imprevedibili, e solo ora, dopo diversi anni, mi rendo conto di cosa sia stato lavorare sul desiderio, per me. Non si trattava solo di mostrare un possibile uso rivoluzionario del desiderio ma, anche se allora in modo del tutto latente, di aprire nella tematica del desiderio una zona di indiscernibilità che potesse avvicinarsi all’impossibile concetto deleuziano di velocità infinita. Qualcosa in grado di scardinare quel linguaggio che già per Heidegger, prima ancora che per Marcuse, era diventato un linguaggio chiuso, logoro e incapace di dare ancora filosofia. Solo in tal senso il desiderio mi si imponeva come una brace inestinguibile, una potenza in grado di manifestarsi al di là di qualsivoglia codificazione, al di fuori di qualsiasi possibilità di taglio, di irretimento e, soprattutto, al di là di qualsiasi schiacciamento prestazionale, vero trionfo di una società ottimizzata in autoesaltazione costante.

Lavorare sul desiderio, tanto sul versante esplicito di Marcuse, quanto su quello più sotterraneo (almeno, per come lo tratto in questo lavoro) di Deleuze, non è stato altro che un modo per affinare lo sguardo e renderlo capace di cogliere, nel desiderio, una sorta di precursore del tema del divenire. Nello specifico, il mio modo di parlare del desiderio era tormentato da un pensiero ben preciso, ossessionato da un’immagine: quella del labirinto. Questo mi portava a pensare il desiderio come una potenza capace di creare un determinato modo di muoversi nel mondo, dispersivo, perturbante, disorientante.

Perché un labirinto e non una linea retta? Che cos’è un labirinto se non la creazione di un nuovo tipo spazio? Creazione di un determinato modo di spazializzare un campo, di renderlo attraversabile secondo un disegno che, prima della comparsa del labirinto, non esisteva. Ma oltre all’immagine astratta di un labirinto geometrico, si imponeva in me, contemporaneamente, la percezione di un labirinto fatto di sedimentazioni e di residui materici, qualcosa con cui si poteva avere un contatto concreto, anche se spesso spaventoso e inquietante. In tal senso, il desiderio diventava molteplicità, fonte infinita di relazioni e di stimoli, non solo umani, ma anche ambientali, territoriali, vegetali, insomma rizomatici. Si trattava di mettere in relazione il desiderio con il labirinto e cogliere i nuovi legami e le costruzioni che andavano a comporre una particolare dimensione, capace di abitare un tempo che non era più quello del calcolo e della successione stratificata di un sapere sedimentato e incasellato, ma che inauguravano la dimensione di un’apertura, ossia di una possibilità imprevedibile, indeterminabile, inquietante: una filosofia dell’evento.

Quando si lavora a qualcosa e si traccia una linea, si crede di marcare una direzione ben precisa e delimitare un campo d’azione esclusivo, ma soprattutto si crede di avere un obiettivo specifico. Così, radicandomi nel tema del desiderio, pensavo di puntare verso qualcosa di concreto e di pratico, mentre in realtà stavo solo costruendo una ponte verso l’astrazione pura, verso quella che un tempo i filosofi chiamavano metafisica, quando la filosofia era ancora possibile. Quanto più mi concentravo sul desiderio, tanto più emergeva qualcosa di intempestivo e di magmatico, qualcosa che assumeva i tratti di una interferenza, ma era una variazione inseparabile dal piano codificato che la produceva, qualcosa di indiscernibile che non si poteva oggettivare, che io non ero in grado di anatomizzare. Era proprio in questo modo che la dimensione del desiderio mostrava tutta la sua potenza, era questa la prova, giuridicamente irrilevante, che c’era qualcosa al di là della mera nominazione linguistica. Qualcosa di misterioso, nascosto ma imperioso, agiva nella messa in scrittura di tale tematica e, nonostante tutti gli sforzi per renderla coerente, la corrente abissale di una nuova potenza emergente, quella del divenire, premeva in modo sempre più deciso – ma era ancora troppo presto. Non era ancora arrivato il momento per parlare del divenire, non ero ancora pronto per incarnare quella ferita, anche se tale ferita già esisteva.

In tal senso, questo libro sul desiderio si mostra, in un’ottica temporale più matura, come un libro di preparazione per qualcosa di ancora più insondabile: il divenire. Non si vuole rinnegare niente, ma solo affermare che si stava navigando bene proprio perché si stava naufragando. Infatti, se c’è qualcosa da salvare in questo ennesimo lavoro sul desiderio, è che non esiste, quando si naufraga, la possibilità dell’errore, perché non esiste più la prospettiva della salvezza e della verità, e non si può far altro che scendere sempre di più nell’abisso dell’ossessione, in vista di uno smarrimento che può diventare, nel tempo, solo più radicale ed irreversibile. Nonostante ciò e solo seguendo questa direzione ignota che mi ha obbligato ad affrontare i temi già più e più volte trattati (e trattati anche meglio) da altri nomi, orbitanti attorno al desiderio, ossia i temi del godimento, del capitalismo e della repressione, ho potuto costruire in me il mio personale labirinto e smarrirmi, al fine di poter essere successivamente divorato dal Minotauro del divenire.

Esclusivamente in quest’ottica, mi si deve scusare l’alterazione di Marcuse, che diventa, ormai sarà chiaro, una figura costruita. Ho dovuto mettere in campo un personaggio concettuale particolare, il quale doveva racchiudere in sé i tratti del marxista senza per questo smarrire la capacità di disegnare la maschera della malafede con cui ho dovuto lottare per restare a galla, di fronte alla lenta e seducente corrente mortifera dell’inerzia. Quando, con sommo tradimento e ingenuità, ho creato questo personaggio concettuale, mi sono reso conto, a delitto compiuto, di non aver dato voce a Marcuse, ma a quello specifico personaggio concettuale di cui avevo bisogno per costruire il mio concetto di desiderio.

Di quanti personaggi concettuali può essere riempito un piano di immanenza per far sì che possa passare qualcosa, tra le maglie della codificazione calcolante, sotto le lame dei tagli linguistici e degli incasellamenti rassicuranti, confortevoli, ma che diventano necessariamente una scacchiera chiusa? Di quanta mistificazione ho avuto bisogno per poter gridare a me stesso che, nonostante la scacchiera della mia filosofia fosse chiusa e sigillata, poteva darsi ancora la possibilità di un’apertura dalla quale far filtrare una tempesta terribile, un vento sotterraneo capace di scombinare il piano del reale? Di quanti tradimenti ha bisogno la filosofia, oggi, per far finta di poter ancora esistere?

È una domanda che resta inevitabilmente senza risposta. Almeno, io non ho avuto ancora il coraggio di pervenire al silenzio assoluto di fronte all’inerzia della mia stessa scrittura. Non sono stato migliore degli altri: come traditore, ho compiuto i loro stessi delitti intellettuali, ho simulato le loro stesse imposture e ho applicato, nella scrittura, la loro stessa malafede. Forse sono stato migliore di loro come ossessivo, in quanto il tradimento era diventato per me il piano di consistenza da cui lanciarmi per affrontare l’abisso del divenire, ma per ora questo non ci riguarda.

Resto fermamente convinto dell’inutilità di un lavoro su Marcuse e, peggio ancora, sul desiderio, così come resto fermamente convinto dell’inutilità di questo mio lavoro da un punto di vista filosofico. Marcuse non merita, o meglio, non ha bisogno di inerziali e volenterosi sacerdoti disillusi capaci di far risuonare le sue categorie riattualizzandole. Soprattutto oggi, qualsiasi filosofia che non sfoci in una metafisica ossessiva non ha altro scopo se non quello di essere vendibile, di rendersi vendibile, tanto nelle sue varianti accademiche, complici di vendere l’illusione di un’alta formazione culturale che non esiste più da un secolo, quanto nelle sue varianti spettacolarizzate dal suggestivo regno dell’immagine, complici di essere seducenti e riconcilianti nel vendere l’illusione di una società equilibrata e aperta, ma dove tutti sono obbligati a parlare e mettere sotto i riflettori qualsiasi abisso, personale o impersonale, smarrendo così la possibilità stessa dell’abisso.

Soprattutto, attraverso questo epilogo non cerco nessun tipo di assoluzione, ma vorrei solo fornire un avvertimento al lettore: questo non è un libro originale, non ha nulla di importante da dire. Questo è il libro di un traditore che non ha voluto rassegnarsi all’inerzia culturale del suo tempo storico, del suo presente, e che ha messo in scrittura una concezione del desiderio di cui il vecchio mondo culturale avrebbe fatto volentieri a meno. Non ho trovato un modo per ridare vita alla filosofia, così come non ho trovato un modo per conferire forza al pensiero filosofico. Sono soltanto riuscito a mettere in scrittura una mia personale ossessione. E in tal senso rimando, per chi si addentrerà nonostante tutto nella lettura del testo, agli autori citati e alle loro opere.

Anche questo è, per quanto assurdo possa sembrare, costruire un labirinto, fare desiderio.


*[NdA] L’autore ha deciso di aggiungere questa confessione non per mero scherno nei confronti del lettore, ma per presentare, fin da subito, il tradimento che si è compiuto in queste pagine. Pagine inerziali e superflue, ma grazie alle quali, quantomeno, si è presa consapevolezza dell’inerzia intesa come fenomeno culturale contemporaneo; era giusto, pertanto, iniziare con la fine per risparmiare al lettore la fatica di leggere il resto.

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