Genealogia della generalizzazione e del capro espiatorio

Nella perfetta tempesta pandemica, che oggi travolge tutto e tutti, ognuno ritiene che sia possibile ergersi a giudice dell’altro e degli altri, non solo individualmente ma anche collettivamente, individuando ed attribuendo la colpa del disastro, quasi ab origine, ad intere categorie umane, in conseguenza delle loro qualità morali, per il colore della pelle, per il ruolo svolto nella società, per motivi religiosi o etnici. Nell’occidente, secolarizzato e stretto nella crisi pandemica, si riaffacciano antiche ritualità sanguinarie – sia fattuali che verbali – nei confronti di un fantomatico nemico pubblico istituzionalizzato dalla pubblica opinione, anzi dal pubblico odio.

Il vocabolario Treccani, in proposito, definisce così il verbo “generalizzare”, in tutta la sua portata concettuale: “rendere generale; estendere, applicare a un intero gruppo di persone o di cose ciò che ha valore particolare o si riferisce al singolo”. La generalizzazione è dunque un processo che serve a rassicurare, a far sentire rassicurati.

La generalizzazione si realizza in tutti quei comportamenti che hanno come finalità il circoscrivere nell’ambito di pre-giudizi le proprie opinioni – privandosi di efficace autocritica, e molto spesso omologandosi all’altrui opinione senza alcuna base di autenticità. Molte affermazioni che si definiscono comunemente come “luoghi comuni” o “stereotipi” sono in realtà generalizzazioni che impediscono il pensiero critico e la libertà di analisi nei confronti dei fenomeni e delle categorie umane.

La generalizzazione è fondamentalmente una proiezione, un meccanismo di difesa, una trasposizione di sentimenti propri sugli altri e l’utilità di tale dinamica si realizza in una forma di difesa non tanto contro il mondo, ma come rassicurazione verso il mondo, mutando in breve tempo in preconcetti, convinzioni e comportamenti che addirittura negano la realtà, così da poter mettere da parte le proprie responsabilità. La generalizzazione è la considerazione di un singolo elemento come appartenente ad una totalità, scaturisce da un bisogno primordiale: il bisogno di elaborare categorie che rendano più semplice in apparenza la lettura della realtà.

Schematizzare, per poi estendere il medesimo schema alla generalità, è una forma di esenzione dal dover analizzare ogni situazione per quello che è, con l’indubbio vantaggio di far sentire nel giusto chi opera tale esenzione, poiché tali dinamiche trovano conforto dal fatto che sono facilmente ma infondatamente verificabili. Pertanto, mettere in discussione le proprie generalizzazioni crea una sorta di destabilizzazione mentale, pur confermando l’idea di essere nel giusto, perché tali idee convergono con le opinioni comuni di molte persone.

Si tratta, dunque, di modelli di riferimento mediocri, ottimi per una banale elaborazione, categorie grossolane con cui interpretiamo il mondo – divisioni arbitrarie fra buoni e cattivi, normali e deviati, bianchi e neri, garantiti e non garantiti –, di modelli mediocri, nel senso di non pensati, non scelti con attenzione prima di essere usati come tali: smettere di pensare è, infatti, uno dei risultati della generalizzazione.

L’altro concreto risultato dei processi di generalizzazione è la creazione del “capro espiatorio”, infatti, tramite il fondamentale strumento dell’odio verso un presunto nemico dell’umanità, si indirizza violentemente il risentimento sociale, effettuando quella operazione di trasposizione della responsabilità che invece la realtà impone, attuando un processo autoassolutorio di negazione della realtà e di capitalizzazione del consenso.

René Girard nel suo libro “Il capro espiatorio” (Adelphi, 2020), attraverso una profonda analisi anche di testi sacri, descrive la violenza e il risentimento della folla originati dal desiderio di individuare un colpevole da sacrificare, al fine di ristabilire lo status quo ante disperatamente perduto. Un solo evento interrompe la catena di sangue e afferma l’innocenza del capro espiatorio: il Vangelo, il sacrificio e la resurrezione di Cristo sconvolge gli accusatori crudeli e rivela l’erroneità dell’individuazione del colpevole designato. Tutti coloro che generalizzano a ogni piè sospinto devono saperlo: il capro espiatorio è sempre innocente.

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Gianfrancesco Caputo

Nato a Brindisi nel 1966, funzionario statale. Ha ricoperto incarichi direttivi e cariche sindacali. È autore, si interessa a problemi del lavoro e politici (sia in chiave sociologica che filosofica).
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