Nietzsche e il problema della metafisica
“Io penso con molta chiarezza, ma non favorevolmente, sulla mia intera situazione. Mi manca non solo la salute, bensì il presupposto per diventare sano” (Nietzsche, Lettera a Overbeck, 4 luglio 1888, Sils-Maria)
Se Heidegger spinge verso una lettura metafisica dell’impianto della filosofia di Nietzsche, andando a rielaborarne i concetti principali come massima espressione di una metafisica che giungerebbe al suo tramonto, esiste anche un altro modo di rapportarsi a Nietzsche, un modo che inaugura ed apre uno scenario dell’immanenza e che trova appoggio sul tema del corpo e del divenire. Si tratta ovviamente della lettura francese che avviene soprattutto grazie al lavoro di Deleuze e che trova, nel tema del corpo, la risposta di Nietzsche alla metafisica, in una chiave anti-heideggeriana. Il tema del corpo diventa così un modo per rovesciare non solo l’analisi metafisica di Heidegger, ma per criticare tutta la metafisica occidentale e per configurare Nietzsche in una direzione più spinoziana.
Quando Deleuze lavora su Nietzsche ci tiene a chiarire subito che il corpo di cui si occupa la filosofia non ha nulla a che fare con il corpo di cui parla la scienza in tutte le sue varie declinazioni – per corpo bisogna intendere il luogo dell’incontro casuale tra forze differenti. Il corpo sarebbe quindi l’incrocio contingente di un processo di incidentazione: «Affinché si costituisca un corpo – chimico, biologico, sociale, politico – è sufficiente che due forze qualsiasi, diverse l’una dall’altra, entrino in rapporto tra di loro. Un corpo è perciò sempre frutto del caso, nel senso nietzscheano del termine, è la cosa più meravigliosa, molto più della coscienza e dello spirito»[1]. Qui Deleuze ci tiene subito a sottolineare che un corpo entra costantemente in processi di divenire che destabilizzano qualsiasi presunta identità e che rendono impossibile dedurre un corpo, o farne un campo di conoscenze astratte, un campo di saperi coscienziali – il corpo è appunto molto più della coscienza. Il corpo è frutto del caso, non ha un disegno e non ha ideale, anzi, rifiuta proprio l’ideale e non teme la propria contaminazione con altre forze, con altre potenze, è inserito in un processo di continua perversione diveniente. Si potrebbe dire che la potenza stessa del corpo trovi il proprio statuto in una contaminazione continua fatta di incontri casuali.
Nella riscrittura operata da Nietzsche a proposito delle prefazioni ai suoi libri, come atto asincrono di ri-scoperta di se stesso, e che avviene attorno al 1886, si manifesta la volontà di incontrare nuove potenze proprio in quei testi che aveva già avuto modo di pubblicare. Nietzsche non fa che ritornare sui pensieri del proprio passato al fine di non permettere al passato di irrigidirsi in una nuova formulazione metafisica. Insiste sui testi pubblicati per darsi la possibilità di ritornare, non solo nell’ottica di un continuo e sempre diveniente ritorno dell’eterno, ma, direbbe Deleuze, nell’ottica di una continua ripetizione della differenza. Sarà proprio nella prefazione della Gaia scienza che Nietzsche parlerà in termini di guarigione, convalescenza, malattia, da un punto di vista palesemente immanentistico, tanto da criticare apertamente qualsivoglia volontà di istituire, anche se solo nel pensiero, un mondo dietro il mondo diveniente: «Ogni filosofia che ripone la pace più in alto della guerra, ogni etica che ha della nozione di felicità una concezione negativa, ogni metafisica e ogni fisica che conosce un finale, uno stato terminale, di qualsivoglia specie, ogni esigenza prevalentemente estetica o religiosa di un a parte, di un al di là, di un al di fuori, di un al di sopra, autorizza a chiedere se non sia stata la malattia ciò che ha ispirato il filosofo»[2]. La malattia fa parlare il pensiero curvandolo verso un’ipostasi, anzi, una sacra ipostati capace di riscattare il non-senso del divenire e del dolore, e chiaramente dolore va qui inteso nel senso più ampio possibile, proprio come orroreoriginario [θαῦμα]. Ma se la malattia curva il pensiero verso l’astrazione salvifica, verso un senso metafisico, significa che tutto quanto il pensiero umano non ha fatto altro che costruire un al di là, un al di fuori, un al di sopra, e Nietzsche intende negare questa trascendenza, sebbene chiaramente ne riconosca la piena potenza. Il pensiero che separa il proprio statuto dal corpo vuole evitare l’incontro con la contingenza, con le forze attive intese come luogo di contaminazione, con le forze indeducibili, quelle che Deleuze chiamerà le zone di indiscernibilità.
La cadaverica struttura delle forze, che Nietzsche definisce reattive, non fa altro che muoversi su caselle prestabilite, non fa altro che codificare le forze in precisi contenitori, costruendo assieme agli statuti di verità quei processi di soggettivazione e di costruzione dei soggetti di cui si occuperà poi proprio il post-strutturalismo. Ed è proprio questo lo sguardo della scienza mortifera: «Ora, è necessario prendere atto che il pensiero contemporaneo nutre uno smodato interesse per l’aspetto reattivo delle forze. Ci si accontenta di comprendere l’organismo a partire dalle forze reattive»[3]. Non bisogna dimenticare però che sempre, a prescindere delle formulazioni, quando si costruiscono statuti di verità si costruiscono processi di soggettivazione, si strutturano soggetti e che questi soggetti possono essere anche soggetti liberi, ma liberi di determinarsi attorno a precisi campi di verità, ovviamente i campi di verità riconosciuti come validi, come funzionanti. Tali campi, per Nietzsche, sono la prova più evidente che non ci si è liberati dall’al di là, dall’al di sopra, insomma dalla metafisica. Per quanto riguarda il corpo, quindi, non solo si fa del corpo un mero organismo, ma si intende questo organismo come il sepolcro delle forze reattive, capaci solo di re-agire all’incontro, ipostatizzando ogni volta un nuovo campo della verità che diventa, quanto più la società si evolve, sempre più plastico e fluido, ma mai molteplice. Non conta che la verità sia quella teologica, metafisica o funzionale, perché sempre, in base al campo di verità che si istituisce, si andranno a costruire dei soggetti, incapaci di affrontare la contingenza e le forze attive, ma abili e competenti nell’affrontare il campo di verità vigente, felici di collocarsi all’interno dello statuto di verità e di saper parlare la lingua di quella precisa dimensione veritativa: per fare un esempio quando la verità diventa funzione ed esattezza il soggetto diventa prestazionale.
Soltanto nella volontà di conferire un fine al sintomo corporeo e nella volontà di redimere il dolore si istituisce una dimensione salvifica e metafisica, si organizza una metafisica, ed è solo attraverso tale operazione che la dimensione della verità appare come qualcosa di perfettamente stabile ed è questo il grande fraintendimento: «Abbastanza spesso mi sono chiesto se la filosofia, in un calcolo complessivo, non sia stata fino a oggi principalmente soltanto una spiegazione del corpo e un fraintendimento del corpo»[4]. Il rovesciamento di Nietzsche arriva quindi a rendere la verità stessa un qualcosa di corporeo, la metafisica qualcosa di sintomatico ed il Dio, inteso come regno della metafisica, qualcosa che può andare in putrefazione. Bisogna quindi intendere la verità come figlia del corpo e non il contrario, figlia di un corpo che può essere denudato e dis-velato, ed è proprio per questo che la verità per Nietzsche non sarà altro che una forma di potenza, una forma reattiva di potenza attorno a cui si istituisce il regno del soggetto: un Dio di tipo diverso, ma pur sempre accartocciato attorno al potere inteso come campo di verità riconosciuto. Attraverso la verità, verità intesa come stabilità metafisica, l’uomo non ha voluto fare altro che congelare il divenire, fraintendere e congelare il corpo, facendone un corpo-cadavere capace di diventare il campo di verità della medicina, dove è possibile praticare tutte le sperimentazioni possibili. Lo si può dire anche con un linguaggio più astratto, come fa ad esempio Heidegger quando dichiara che per Nietzsche lo scontro supremo è tra divenire ed essere e che la volontà di dominare il divenire si manifesta nell’imprimere al divenire il carattere dell’essere[5], ossia della stabilità, imprimere ai flussi e agli incontri casuali l’istituzione dell’organologia.
Si pensa sempre con troppa superficialità di ridurre Nietzsche alla formula Dio è morto, ma questa formula, sottolinea Deleuze, non è per niente un’invenzione di Nietzsche. Anzi, proprio questa formula si radica in quella che si potrebbe definire una genealogia formativa di Nietzsche che discende dal luteranesimo e che filtra nel pensiero tedesco anche di stampo hegeliano. Ma la vera innovazione di Nietzsche si situa nella constatazione che non ci si libererà mai dalla metafisica fin quando sarà l’uomo con il suo linguaggio, con i suoi principi di identità e con i suoi postulati veritativi a prendere il posto di Dio: «Per contro, secondo lui occorre scoprire qualcosa che non sia né Dio né uomo, bisogna far parlare le individuazioni impersonali e le singolarità preindividuali… quello che lui chiama Dioniso»[6]. Si tratta di far parlare e dare voce agli animali, ai vegetali o ad una molecola, per far sì che si possa uscire dalla costruzione neometafisica di un soggetto che, sebbene calato sul piano di immanenza funzionale del mercato, non fa altro che seguire l’imperativo categorico dell’ottimizzazione perenne.
La società odierna è sicuramente una società carica di nuovi valori, piena di una retorica valoriale come non se ne erano mai viste, ma sono proprio questi valori l’antitesi più radicale al concetto di valore per come lo intendeva Nietzsche. Non sono proprio questi valori il segno della decadenza funzionale, una decadenza incapace di decadere del tutto perché nel suo decadimento trova piani momentanei di appoggio e di auto-perfezionamento funzionale? Anche a questo in parte rispondeva Deleuze: «Era necessario, in questo dopoguerra, servirsi del concetto di valore: ma lo si è neutralizzato completamente, privandolo di ogni senso critico o creativo, riducendolo a strumento di valori stabiliti. Ecco allora l’Anti-Nietzsche allo stato puro, anzi, peggio che l’Anti-Nietzsche, il Nietzsche deviato, annichilito, soppresso, canonizzato»[7]. Ed è proprio sotto il segno della canonizzazione che si perpetua il massacro del corpo in nome di una nuova forma di metafisica che ha il suo statuto epistemologico, non ancora nel corpo del divenire e nell’immanenza del divenire[8], ma nel concetto di soggetto. Una neo-metafisica che non ha ancora la forza di pensare il corpo, agli incontri dei corpi ed alle complicazioni del piano di immanenza e che rinuncia, pare in modo sempre più definitivo, alla tragedia che è la vita.
“Interi gruppi partono, vivono da nomadi: gli archeologi ci hanno insegnato a concepire questo nomadismo, non come una condizione primaria, ma come un’avventura che finisce per coinvolgere gruppi sedentari, richiamati dal fuori, dal movimento. Il nomade e la sua macchina da guerra si contrappongono al despota e alla sua macchina amministrativa” (Deleuze)
Note
[1] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, a cura di F. Polidori, Einaudi, Torino 2005, p. 60.
[2] F. Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 2001, p. 30.
[3] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 62.
[4] F. Nietzsche, La gaia scienza, op. cit., p.30.
[5] M. Heidegger, Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2018.
[6] G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 302.
[7] Ivi, p. 299.
[8] J. Gil, L’impercettibile divenire dell’immanenza. Sulla filosofia di Deleuze, a cura di M. Masini e G. Ferraro, Cronopio, Napoli 2020.