Pier Paolo Pasolini: può educare solo chi sa cosa significa amare
Pier Paolo Pasolini insieme alla madre nel 1944 organizzò in un casolare di campagna una scuola per i ragazzi di Casarsa i quali, a causa dei bombardamenti, non potevano frequentare la scuola pubblica. Il suo esordio didattico mette in luce la novità di un metodo basato su un interscambio paritario tra alunno e insegnante. Scrive in Pagine corsare: “Non credo di essermi mai comportato con tanta dedizione come con quei fanciulli”.
Successivamente insegnò nella scuola media di Valvasone (dal 1947 al 1949) e a Roma in una scuola privata di Ciampino (dal 1950 al 1954). Pur avendo dedicato solo alcuni anni all'insegnamento, conservò per tutta la vita una vera e propria vocazione didattica, che si avverte nell'opera poetica e negli scritti saggistici.
Pasolini è stato un insegnante non per caso, ma per scelta. Andrea Zanzotto lo ricorda intento ad insegnare inventandosi favole, a disegnare cartelloni, a curare il giardino della scuola e ad allenare la squadra di calcio dei ragazzi. Queste esperienze vengono descritte nel Diario di un insegnante che comprende: considerazioni su aspetti pedagogici e didattici; riflessioni, scoperte, preparazione delle lezioni, racconti, miti, osservazioni e poesie dedicate ai suoi ragazzi (mai definiti alunni). Aveva una particolare disposizione verso i bisogni e le speranze dei giovani: camminava al loro fianco e si prendeva cura dei loro sentimenti e delle loro intelligenze. In lui c’era una nostalgica ansia didattica.
Il vero insegnamento non può essere concepito in termini tradizionali, ma deve eludere le forme “classiche” del rapporto tra alunno – maestro. “Il lavoro del maestro è come quello della massaia, bisogna ogni mattina ricominciare da capo. Lascio la sera i ragazzi in piena fase di ordine e di volontà di sapere - partecipi, infervorati - e li ritrovo il giorno dopo ricaduti nella freddezza e nell'indifferenza”.
Pasolini poneva in continua discussione le proprie scelte didattiche e andava alla ricerca
ininterrotta dei mezzi più validi per entrare in comunione con gli interessi degli allievi. Rinunciava a ogni potere impositivo che viene dall'alto ed entusiasmava i giovani in modo da far affiorare le attitudini di ognuno.
A suo parere “il metodo della Montessori e dei positivisti” non era in grado di catturare “il mistero e l’incongruenza che sono in fondo le concrezioni della libertà”, sovente espresse nelle colorite parlate sgrammaticate che si riversano nella scrittura dei temi. A loro volta gli idealisti non si preoccupano “dell’irrazionale, del gratuito, e del puro vivente che è in noi... può educare solo chi sa amare”. Una pedagogia positiva può esistere se “viva, nata e concepita sul campo, disponibile ai cambiamenti dettati dal contingente”. In tal modo l’insegnante e i ragazzi sono legati da una fiduciosa corrispondenza che li colloca ad uno stesso livello nel percorso educativo.
Paolini si interroga sul metodo, sulle scelte e sulle modalità da seguire nella lezione in classe, poiché la sua passione pedagogica “non avrebbe avuto più senso se avesse richiamato su di sé l’interesse dei ragazzi, se non fosse stato puro e impersonale veicolo di insegnamento”. Essere “mezzo, non già fine, d’amore”, questa è l’anima che lo scrittore scorge nell'atto educativo.
L’insegnante deve essere animatore del processo educativo, non oggetto d’amore. Deve provocare amore per l’oggetto di studio, suscitare la passione per lo studio che si autoalimenta. “Ed ecco che fui illuminato improvvisamente. Capii che erravo credendo il nostro rapporto dovesse essere un rapporto di reciproco amore: no, io dovevo mettermi in disparte, ignorarmi, dovevo essere mezzo, non già fine, d’amore”. L’educatore deve liberare lo studente dalle cristallizzazioni dell’autorità ponendolo “in uno stato critico e polemico nei confronti dell’esistenza”.
Un bravo insegnante, con consapevolezza socratica, non rinnega il vuoto di conoscenza presente nell'allievo sovrapponendovi affermazioni autoritarie improbabili, ma muove l’amore per la ricerca la quale è spinta “verso la possibilità inedita di fare esperienza dell’apertura dei mondi, di sostare in essa senza pretendere di appropriarsene, ma imparando a decentrarsi dal proprio Io e dai suoi fantasmi di padronanza”.