Bestemmiare contro l’uomo. Sul “Libro delle bestemmie” di Nicola Vacca

Ha tratti fin troppo umani il dio di cui parla Nicola Vacca nella sua ultima raccolta poetica, il Libro delle bestemmie, Marco Saya Editore. Ci appare subito, infatti, un Dio plasmato talmente a immagine e somiglianza dell’uomo, da far venir meno ogni qualsivoglia concetto di alterità o di divinità.

Si è indotti quindi, subito, nel leggere e nel cercare di interpretare i testi contenuti in questa raccolta, a chiedersi cosa resti dello stesso concetto del sacro. Sappiamo infatti che la Poesia è sempre legata ad uno sfondo e a un clima, così come sappiamo che la stessa tenda sempre a svelare un varco, una possibile diversa uscita dal senso dato, cristallizzato e univoco della realtà che viviamo e, qui, ci si interroga proprio sul senso e sul segno che va ad esprimere un dio estraniato, posto assolutamente al di fuori e al di sopra della sfera umana di cui siamo parte, con la logica conseguenza che ne deriva, che è quella dell’ineluttabilità del male, di un male che viene soltanto rimandato al giudizio finale di un dio infinitamente misericordioso o, al massimo viene impropriamente esorcizzato con l’esercizio di una preghiera rivolta verso l’Alto e che non riporta mai in terra l’Assente.

Un assente che, relegato in una lontananza irriducibile e indifferente alle condotte umane, finisce per assumere l’aspetto diabolico di colui che tutto può ma nulla fa, istituendo il libero arbitrio,   e in tale non confutato senso, rendendo in pratica deleteria ogni imitatio Christi o Dei, oltre a deificare, sul versante opposto, le condotte umane univoche e dilaganti ovvero tutta la cosiddetta banalità del male, da cui siamo afflitti e a cui non viene opposto l’ideale di un uomo che debba in primo luogo salvarsi da solo in terra: non un inutile e deresponsabilizzante “libera nos a malo” rivolto a un dio che non può farlo, ma il mantenimento di quella coscienza luminosa perché libera e costantemente rivolta alla salvaguardia e alla cura del valore della vita in quanto tale.

Va a finire che l’incarnazione viene intesa come atto unico e irripetibile e ci si chiede pertanto come possa essere redimibile un’umanità che invertendo i termini della questione, non sente più l’Altro bruciare ogni giorno dentro di sé. Un’umanità che sarà invece punita e soppressa da una divinità tanto barbara, quanto l’immagine stessa dell’uomo, proiettata da quest’ultimo fuori dal suo essere così com’è: impassibile, nullificato e in cattiva fede ovvero, decisamente, “In disgrazia di dio”, come recita il titolo di una delle poesie di cui si parla.

Considerando poi l’ultima strofa di un’altra di queste poesie, in cui leggiamo:

“In prima pagina

nessuna attenzione

per i poveri cristi a cui ogni giorno

viene negata la resurrezione”

viene da dire che il vero dio morto sia l’amore per ciò che solo può intendersi come Vita, ciò che precede l’oggetto in cui l’umano è differito e annientato.

Intanto quello che qui ci appare è un dio negativo e travisato, perché posto al di fuori del Mito, come dogma inconfutabile. Leggiamo poi nella poesia “L’uomo dio”:

“(….) lo prega nelle chiese/

lo invoca nelle preghiere/

lo cerca nelle cose /

ma trova sempre se stesso/

quando china il capo/

nella devozione del nulla”.

Sembra, qui, che l’autore voglia e riesca a riassumere nell’espressione usata nell’ultimo verso, tutto quanto affligge l’umanità attuale, preparando un futuro orrido alla stessa: una devozione del nulla che è – insieme – la morte dell’uomo e quella del dio.

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Patrizia Garofalo

Patrizia Garofalo è nata a Salerno e risiede ad Agropoli, dove attualmente lavora come insegnante di discipline giuridiche ed economiche.
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